L'Afghanistan e l'impotenza della (fu) iper potenza a stelle e strisce
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L'Afghanistan e l'impotenza della (fu) iper potenza a stelle e strisce

Dopo aver rivendicato la paternità del ritiro, sull’onda dei due devastanti attacchi terroristi a Kabul, e di un rovinoso crollo negli indici di popolarità, Joe Biden calza l’elmetto. E le sue lacrime...

Soldati americani uccisi
Soldati americani uccisi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

27 Agosto 2021 - 16.51


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Ora prova a indossare i panni, a lui non congeniali, di commander in chief. Dopo aver rivendicato la paternità del ritiro, sull’onda dei due devastanti attacchi terroristi a Kabul, e di un rovinoso crollo negli indici di popolarità, Joe Biden calza l’elmetto. Piange, l’inquilino della Casa Bianca. E le sue, statene certi, non sono lacrime di coccodrillo. Non è nella sua indole. Lui non è Trump. Ma quelle lacrime hanno un amaro sapore politico. Sono l’espressione più vera, più dura, dell’impotenza della (fu) iper potenza a stelle e strisce. “Eroi impegnati in una altruista missione pericolosa”. Così  Biden ha definito ieri, in diretta televisiva, i soldati americani morti nell’attentato di Kabul. “Hanno perso la vita per salvare altre vite. Erano la spina dorsale americana”, ha quindi aggiunto il presidente americano, confermando, come già reso noto dal Pentagono, di ritenere che gli attacchi siano stati opera di Isis-K. “Vi daremo la caccia e ve la faremo pagare”, ha quindi detto rivolto ai terroristi.

“Non vi perdoneremo, vi perseguiteremo”

“C’è stato un attacco a Kabul. I terroristi ci hanno attaccato. Ne abbiamo parlato. Ne ha parlato l’intelligence ed è stato individuato come responsabile l’Isis Khorasan che ha preso la vita di diverse persone e militari Usa. “Noi non vi perdoneremo, non dimenticheremo. Vi perseguiteremo e vi faremo pagare per ciò che avete fatto”, ha aggiunto Biden. Gli Usa risponderanno “con forza e precisione. Non ci lasceremo intimidire: questi terroristi dell’Isis non vinceranno”.

 “Chiesto un piano per colpire Isis-K”

Il presidente Usa ha quindi reso noto di aver chiesto un piano per colpire l’Isis-K: “L’America non si farà’ intimidire”, ha assicurato. “Non lasceremo che il terrorismo ci fermi. Porteremo avanti la nostra missione. Se ci saranno altri attacchi, noi risponderemo. I terroristi non vinceranno. Noi salveremo gli americani e gli alleati afghani. Non ci faremo intimidire”. 

 “Porto la responsabilità di quanto successo”

Biden non scarica le responsabilità del ritiro e del negoziato con i Taliban sule spalle del suo predecessore.Il presidente Usa si è poi assunto davanti alla nazione la responsabilità di quanto successo nella fase finale del ritiro Usa dall’Afghanistan: “Fondamentalmente porto la responsabilità di tutto quello che è accaduto”, ha detto.

Biden ha quindi riconfermato la data del 31 agosto per concludere il ritiro dall’Afghanistan ma ha assicurato che gli Usa proveranno anche dopo quella data a continuare a portare fuori dal Paese gli afghani che hanno aiutato gli Stati Uniti.

“Non è giorno per la politica”. Questo il commento della Casa Bianca alle richieste di dimissioni da presidente di Joe Biden lanciate dal suo predecessore, Donald Trump. “Questo è il giorno in cui dodici militari americani sono rimasti uccisi – ha commentato la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki – non è giorno per la politica e noi ci aspettiamo che ogni americano, eletto o no, stia al nostro fianco nel compito di trovare e colpire gli assassini, ovunque essi vivano. E per onorare la memoria dei nostri militari. Questo è il significato di questa giornata”. 

La Casa Bianca ha poi chiarito le parole di Biden riguardo quel “verremo a prendervi e ve la faremo pagare”. La portavoce ha spiegato che non si tratta d’inviare di nuovo migliaia di soldati. “Ciò di cui stiamo parlando – ha spiegato Jen Psaki – è vendicare quelle morti provocate dai terroristi. Non parliamo di mandare decine di migliaia di soldati di nuovo in Afghanistan per una guerra senza fine che abbiamo combattuto per vent’anni”. La portavoce ha inoltre ribadito che Biden “non ha mai considerato di cambiare la scadenza del 31 agosto”.  “Il presidente – ha aggiunto – ha dato ascolto al consiglio dei comandanti, che continuano a ritenere essenziale andare via entro la scadenza. Questo è il loro consiglio”. 

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Il tramonto di una potenza

“Indubbiamente il ritiro  si poteva organizzare molto meglio – annota Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica –  Non è stato fatto e questo, a mio avviso, dipende innanzitutto da una crisi americana che poi si riflette anche nelle sue proiezioni esterne. Il punto fondamentale è che l’America sta vivendo una fase di crisi, culturale prima di tutto, che si riflette nella sua proiezione nel mondo. E’ evidente, lo dicevano gli stessi americani, che quella guerra ormai era diventata completamente inutile e controproducente. Averci messo vent’anni per capirlo e per uscirne in questo modo, la dice lunga su un abissale deficit politico, culturale, prim’ancora che militare. Tenendo peraltro conto che stiamo parlando di una uscita “non uscita”. La cosa che mi pare abbastanza paradossale è che tu dichiari il ritiro e mentre lo dichiari mandi 6mila marines. A Roma si direbbe, fate pace col cervello. Mandi 6mila marines perché non sai gestire il ritiro. E questo sul caso specifico. Poi è evidente che a questo punto dovremo comunque trovare dei compromessi con i Talebani perché ormai da lì non se ne vanno. Con i Talebani e con le altre potenze regionali. Tutta la discussione sul trattare sì, trattare no, mi pare perfettamente oziosa nel momento in cui, per esempio, gli Stati Uniti firmano un formale trattato con uno Stato che non riconoscono ma con cui, appunto, fanno un accordo che è quello per il ritiro. Tra l’altro arrogandosi il diritto di decidere per tutti i Paesi della Nato, come se ci avessero mai consultato”. 

Stategia di attaccco

 E’ intanto salito ad almeno 103 morti il bilancio aggiornato degli attentati all’aeroporto di Kabul: lo riporta il Wall Street Journal, secondo cui le vittime sono i 13 soldati americani già accertati e almeno 90 cittadini afghani. A rivendicare l’attacco di ieri è stata l’Isis. 

E la sfida mortale è destinata a proseguire. Le forze Usa temono nuovi attacchi all’aeroporto di Kabul, dopo l’attentato kamikaze che ieri ha ucciso 90 persone tra cui 13 soldati americani.

 Il generale Frank McKenzie, capo dello Us Central Command, ha detto che i vertici militari americani sono in allarme per probabili nuovi attentati contro lo scalo della capitale afghana “con razzi o autobomba”. “Stiamo facendo tutto quello che possiamo per essere preparati”, ha detto McKenzie, sottolineando che c’è stato uno scambio di intelligence con i talebani e di ritenere “che alcuni altri attacchi siano stati scongiurati” proprio dagli “studenti islamici”. 

La minaccia di attacchi da parte dell’Isis-K nella zona dell’aeroporto di Kabul aumenterà man mano che le forze straniere lasceranno il Paese, gli fa eco il ministro della Difesa britannico Ben Wallace dai microfoni della Bbc. “Sono preoccupato – ha spiegato -. L’Isis ha uno scopo, ha la capacità, se lo desidera, di realizzare un maggior numero di questo tipo di attacchi. Sono assolutamente preoccupato che, finché non ce ne saremo andati, ci sarà una sicura minaccia per le nostre forze, e anche dopo che saremo andati via ci sarà una minaccia per il popolo afghano da parte dell’Isis”. 

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E in questa considerazione c’è un’implicita ammissione del fallimento della strategia dell’Occidente nel concentrare la guerra al terrorismo su singoli Stati. Annota ancora Caracciolo: “Immaginare di vincere una guerra al terrorismo è una contraddizione in termini, perché, come è noto, il terrorismo non è un soggetto geopolitico ma sono delle modalità che vengono utilizzate, tra l’altro in alcuni casi anche dagli Stati, in caso di guerra. Anche se discutibile, si può capire, nell’autunno 2001, la necessità di una spedizione militare che desse il senso all’opinione pubblica americana che l’America, dopo le Torri Gemelle, non stava lì a subire, dopodiché non è che ti vai a piazzare per vent’anni in un Paese ingovernabile, spendendo e spandendo una quantità mostruosa di risorse, con migliaia di morti tuoi e di Paesi alleati. Francamente un bilancio che più catastrofico è difficile immaginarlo, considerando cos’è l’Afghanistan, e cioè non un Paese esattamente centrale nella geopolitica internazionale”.

Di grande interesse è il commento del generale John Allen sul Financial Times: “Con il ritiro, l’America ha perso quasi tutta la sua influenza come principale player nell’Asia centrale”, osserva Allen, presidente di Brookings Institution, uno dei più influenti think tank americani.

Allen ha l’esperienza sul campo, sa di cosa parla, fu comandante delle forze Nato e statunitensi in Afghanistan. “Sebbene la decisione del ritiro sia corretta, la storia sarà dura nel giudicare il modo in cui lo abbiamo fatto. Molto di questo giudizio dipenderà da come saranno affrontate le evacuazioni a Kabul.

Tuttavia – avverte Allen – deve rapidamente seguire un cruciale dibattito sulla politica, se gli Stati Uniti vogliono giocare un ruolo significativo nel futuro dell’Afghanistan e preservare una qualche parvenza d’interesse di sicurezza nazionale nella regione”.

“Gli americani si sono fatti attirare nel pantano afghano – spiega l generale Franco Angioni, già comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri- Non sapendo o volendo cogliere la peculiarità di quel Paese in cui si stavano andando a impantanare, e noi con loro. Si è colpevolmente sottovalutato il peso del fanatismo religioso e anche del tribalismo. Farsi coinvolgere in una situazione del genere è estremamente pericoloso e peraltro pure inutile. Capisco e posso anche apprezzare che esista una volontà di portare un Paese “eccezionale” nell’alveo della normalità occidentale. Ma perché questo obiettivo possa essere perseguito con qualche chance di successo, ci vogliono dei criteri che sono fuori delle norme occidentali. Bisogna entrare nella mentalità orientale e in particolare di quella vena religioso. E questo non è stato fatto per quella che io chiamo una forma di ‘infantile entusiasmo’ quello americano, volto a vendicare l’attacco alle Torri Gemelle. Si doveva agire razionalmente. Sia chiaro: non è che si doveva far finta di niente, assolutamente no, ma non imbarcarsi in un’avventura come se giocassimo a guardie e ladri tra ragazzini. Non era possibile, non era conveniente, e la storia di questi vent’anni lo ha dimostrato, farsi coinvolgere a casa loro in una guerra infinita”.

La guida del Jihad

 “Isis-K aveva tutte le ragioni per desiderare un gesto così clamoroso – scrive Fabrizio Petroni su limesonline- I jihadisti vogliono umiliare gli Stati Uniti per acquisire notorietà e rilanciare il marchio dello Stato Islamico, gravemente compromesso dopo i fasti del 2014-19 (attentati in Europa, parastato fra Siria e Iraq) e dopo essere stato costretto alla macchia in Mesopotamia. Intendono inoltre delegittimare il regime dei taliban, che ne esce come incapace di controllare la situazione.

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I jihadisti considerano come nemici non solo gli occidentali ma pure i regimi che governano i paesi musulmani. Non per ragioni ideologiche o confessionali, almeno non solo. Ma perché il potere lo vogliono loro, perché approfittano del caos per crescere e perché colpendo i governi più o meno apostati guadagnano fama e finanziamenti.

Da decenni a questa parte, la strategia dei jihadisti è sempre stata colpire gli occidentali e in particolare gli Stati Uniti per indurli a sovrareagire. Così fu per l’11 settembre: Osama bin Laden calcolò che gli americani avrebbero risposto invadendo i paesi da cui emanava la minaccia terrorista. Scommessa riuscita: Bush junior dichiarò guerra globale al terrorismo, suicidio che dissanguava la potenza statunitense disperdendola ovunque in conflitti infinibili e astrategici. Ma riuscita solo in parte: gli Usa invasero Afghanistan e Iraq, non esattamente i paesi riconducibili all’11 settembre, come invece erano molto più il Pakistan e l’Arabia Saudita. Quest’ultima veroobiettivo di bin Laden, saudita di nascita e determinato a togliere i Luoghi Santi di Mecca e Medina a casa Sa’ud, che detestava anche perché lo aveva allontanato a inizio anni Novanta.

Questo salto indietro per spiegare il presente – rimarca l’analista di Limes – Isis-K sogna che gli americani restino in Afghanistan per vendicare l’attentato subito. O quantomeno rallentare il ritiro loro e degli altri paesi occidentali per infrangere la scadenza del 31 agosto, così creando una crisi fra stranieri e taliban. In questo modo avrebbe più bersagli per irrobustire il suo marchio, far affluire denaro e rifornimenti dai paesi arabi del Golfo, reclutare fra gli emarginati non solo musulmani in Medio Oriente, Nordafrica ed Europa (dei combattenti stranieri noti come foreign fighters pure l’Italia sa più di qualcosa). Così facendo, aumenterebbe le sue quotazioni presso i servizi segreti del Pakistan, che da sempre coltivano rapporti con le milizie in Afghanistan (pure i taliban, di cui sono inventori) per guadagnare influenza oltre confine.

Inoltre, interrompendo il ritiro degli Stati Uniti, strangolerebbe sul nascere il governo talibano. Del quale sicuramente disprezza la propaganda di queste ore. Poco prima dell’attentato, i portavoce degli studenti pashtun parlavano di regole più permissive per le donne (meno restrizioni sul vestiario, permesso di uscire non accompagnate da uomini, permesso di frequentare l’università) e trattavano con figure non estremiste come l’ex presidente Hamid Karzai e l’ex vicepresidente Abdullah Abdullah per includere altri elementi al potere.

Soprattutto, disprezza le promesse dei taliban di non allacciare rapporti con gruppi jihadisti. Gli studenti pashtun si sono impegnati in tal senso con tutte le potenze che contano, di sicuro con Stati Uniti, Cina e Russia. È la chiave della loro legittimazione, perché l’ultima volta che furono al potere vennero spazzati via dagli americani per aver concesso ad al-Qa’ida di preparare l’11 settembre fra le gole dell’Hindu Kush. È così che hanno convinto gli esausti statunitensi a staccare la spina. È così che corteggiano i cinesi, promettendo che l’instabilità non tracimerà nel Xinjiang. È così che provano a tranquillizzare i russi, spiegando di non aver intenzione di contagiare l’Asia Centrale”, conclude Petroni

Cina, Russia, Turchia, Pakistan, Iran…Sono tanti gli attori esterni che si muovono nel nuovo scenario afghano. Con il proposito, evidente, di riempire il vuoto lasciato da quella che fu l’iper potenza mondiale e che oggi, con Biden, versa lacrime di rabbia, dolore e impotenza. 

 

 

 

 

 

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