Cari compagni pacifisti, ecco perché non possiamo non dirci "afghani"

La tragedia dell'Afghanistan dimostra che non esistono guerre umanitarie. Ma non serve dire che avevano ragione ma impegnarci

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Agosto 2021 - 16.56


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Non possiamo, non dobbiamo dire: ve l’avevamo detto. Avevamo ragione noi. Noi che abbiamo sostenuto che non esistono guerre “umanitarie” ma che, per dirla con il nostro Gino Strada, l’utopia realista è quella di mettere al bando la guerra. Di fronte alla tragedia che si sta consumando in Afghanistan, un pacifismo “illuminato”, responsabile, consapevole, non si attarda a dichiarare vittoria, ricordando i vent’anni di mobilitazione per chiedere il ritiro da Kabul, come dall’Iraq. In quella guerra l’Occidente (e l’Italia) non doveva imbarcarsi, come non doveva farlo in quella che ha devastato la Libia Ma il pacifismo che fa politica e non solo testimonianza, il “che fare” non può non porselo. Come si è posto il tema di un nuovo sistema di difesa, della riconversione dell’apparato militare-industriale. Come ha argomentato, non solo in termini etici, ma anche di una lungimirante difesa degli interessi nazionali, l’importanza di puntare decisamente sulla diplomazia dei diritti e non su quella degli affari.

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Il pacifismo della disobbedienza civile e della non violenza praticate in Palestina, a Gaza come nella Cisgiordania colonizzata dal regime d’apartheid israeliano. Il pacifismo che ha denunciato il vergognoso rifinanziamento dell’Italia agli aguzzini in divisa della cosiddetta Guardia costiera libica. Che ha denunciato le bombe made in Italy vendute alla coalizione saudita che le ha usate per fare strage di civili ne martoriato, e dimenticato, Yemen. E’ il pacifismo che chiede all’Italia di stare con Patrick Zaki e non col Pinochet del Cairo, Abdel Fattah al-Sisi, il capo di quel regime di polizia che ha rapito e trucidato Giulio Regeni e a a cui continuiamo a vendere fregate invece di congelare le relazioni diplomatiche e commerciali. Quel pacifismo che ha dimostrato di saper coniugare idealità e concretezza, che pratica e non predica solidarietà, non brinda per la fuga degli americani dall’Afghanistan. Kabul non è Saigon, i talebani non sono i vietcong. Per questo oggi non possiamo non dirci “afghani”. E aprire una discussione vera, sul che è stato e sul che fare.

Ciò significa assunzione di responsabilità. Coraggio di mettersi in discussione. Avanzare proposte “di governo”. 

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Diplomazia dal basso

E’ ciò che hanno fatto, con uno scritto a quattro mani, Flavio Lotti, Tavola della Pace, e Marco Mascia, Centro Diritti Umani Antonio Papisca dell’Università di Padova. Ecco di seguito il loro scritto.

Così la guerra finisce dov’è cominciata: con i talebani che governano l’Afghanistan. A cosa sono serviti 20 anni di guerre e stragi? Cosa avremmo dovuto fare? Cosa possiamo fare oggi? Quali lezioni dobbiamo trarre da questo clamoroso disastro?

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A cosa sono serviti 20 anni di guerre, stragi e uccisioni?
La guerra in Afghanistan doveva servire a punire i responsabili dell’11 settembre, a mettere fine al regime dei talebani, a sradicare il terrorismo, a portare la democrazia, a promuovere i diritti umani. Oggi è evidente a tutti che 20 anni di guerra non sono serviti a niente. La guerra in Afghanistan non è riuscita a risolvere nessuno dei problemi che pretendeva di risolvere.
Anzi. Molti dei problemi di allora si sono estesi, aggravati e complicati.
La decisione degli afgani (governo ed esercito) di non combattere contro il ritorno dei talebani è il segno più clamoroso del fallimento dell’intervento militare.
A pagare il prezzo più alto, oggi sono proprio le persone che più hanno creduto alle promesse di libertà, democrazia e diritti. Tra queste ci sono le donne e i giovani che hanno lavorato per promuovere i diritti umani e far crescere una società civile, aperta e democratica.
Cosa avremmo dovuto fare nel 2001?
Come dicemmo nel 2001, la decisione americana di attaccare e invadere l’Afghanistan è stata sbagliata, illegale e pericolosa. Sbagliata perché ha provocato un numero impressionante di nuove vittime innocenti, nuove distruzioni e nuove violenze. Illegale perché era espressamente vietata dal diritto internazionale e dalla Carta delle Nazioni Unite. Pericolosa perché anziché fermare la spirale del terrore ha finito per alimentarla.
Gli attentati dell’11 settembre sono stati un fatto inedito che esigeva una risposta inedita.
Invece di attaccare e invadere l’Afghanistan bisognava scegliere un’altra strada più precisa ed efficace: la strada della legalità e della giustizia penale internazionale. Rinunciare a farsi giustizia da soli. Affidare all’Onu la responsabilità di agire a nome dell’intera umanità per sradicare i terrorismi con misure politiche, diplomatiche, finanziarie e di polizia internazionale…. … e andare alle radici dei problemi.
Cosa avremmo dovuto fare in questi 20 anni?
 
Invece di continuare a fare la guerra, in questi 20 anni avremmo dovuto: costruire una strategia della comunità internazionale per l’Afghanistan e l’intera regione non più basata sul paradigma della “sicurezza militare” ma quello della “sicurezza umana” anche promuovendo lo sviluppo della cooperazione economica nell’intera regione;  investire i due trilioni di dollari che abbiamo speso per fare la guerra per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni dell’Afghanistan; promuovere il dialogo politico con tutti, a tutti i livelli; raccogliere la domanda pressante dei familiari delle vittime afgane della guerra e del terrorismo di riconoscimento, ascolto, giustizia, sostegno e risarcimento; investire sulle organizzazioni democratiche della società civile afgana consentendogli di organizzarsi e rafforzarsi, promuovendo il loro riconoscimento politico a tutti i livelli, allargando il loro spazio d’azione, rafforzando la loro voce, sostenendo i loro programmi di riconciliazione dal basso, di difesa e promozione dei diritti umani e della democrazia, di formazione e informazione indipendente.

Cosa possiamo fare oggi?
Primo. Fare i conti con le conseguenze di questo disastro. E con le nostre accresciute responsabilità. Non c’è nulla di facile. La guerra ha complicato le cose e ridotto gli spazi d’iniziativa. Ciononostante non abbiamo alternative.
Secondo. Salvare la vita di chi oggi rischia la morte. Salvare più vite possibili, ora! Non domani! Dare rifugio a chi sta cercando di mettere in salvo la propria vita. Soccorrere subito chi chiede aiuto.
Terzo. Promuovere il dialogo politico a tutti i livelli, da Kabul all’Onu, per promuovere il rispetto dei diritti umani, a partire dalle donne. Non c’è un altro modo.
Dopo un così grande fallimento, è necessario cambiare strada. Chi non lo vorrà, ci farà pagare un prezzo ancora più alto.
Quali lezioni dobbiamo trarre da questo clamoroso disastro?
Prima Lezione. La guerra in Afghanistan non è riuscita a risolvere nessuno dei problemi che pretendeva di risolvere. Il terrorismo, le atrocità dei talebani, le crudeltà contro le donne e le bambine, le violazioni dei diritti umani, la produzione e il commercio della droga,… Dopo l’Afghanistan abbiamo scatenato la guerra in Iraq e in Libia e i risultati sono ugualmente drammatici. È arrivato il tempo di prenderne atto, di smettere di fare le guerre e fare l’impossibile per fermarle.
Seconda Lezione. I diritti umani non si difendono né si promuovono con le guerreLa guerra è la forma più estesa delle violazioni dei diritti umani. Nessuna guerra è mai riuscita ad aumentare il rispetto dei diritti umani. Per difendere e promuovere i diritti umani nel mondo occorre investire sul dialogo politico, culturale e religioso a tutti i livelli, ricercare, promuovere e sostenere la cooperazione internazionale per la soluzione dei grandi problemi comuni, potenziare il sistema universale e i sistemi regionali di promozione e protezione dei diritti umani; dare attuazione ai programmi di educazione e formazione ai diritti umani promossi innanzitutto dall’Onu e dalle sue diverse agenzie, promuovere la partecipazione delle donne a tutti i livelli decisionali nelle istituzioni e nei meccanismi nazionali e internazionali per la prevenzione, la gestione e la soluzione dei conflitti…
Terza Lezione. Continuiamo a spendere migliaia di miliardi di dollari e di euro per inventare e costruire le armi più sofisticate e micidiali. Armi che chiamiamo invisibili e intelligenti. Ma niente di tutto questo è servito a vincere né la guerra contro i talebani né la guerra contro il terrorismo.
Quarta Lezione. Prima di questa guerra in Afghanistan c’era stata un’altra guerra. E prima dell’altra guerra ce n’era stata un’altra ancora. Ma nessuna di queste è mai riuscita ad assicurare un po’ di pace agli afgani. L’unica missione di pace, degna di questo nome, è la missione di chi si prende cura delle vittime della miseria e della guerra, dell’oppressione e dello sfruttamento.
Quinta Lezione. Gli Stati Uniti iniziano e finiscono le guerre quando vogliono, in base agli interessi politici dei governi in carica. Ma noi non possiamo continuare ad inseguire gli interessi di altri. Continuare a costruire coalizioni internazionali a la carte mina le stesse basi di quell’ordine mondiale di pace positiva la cui costruzione è stata avviata dalla Carta delle Nazioni Unite, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dalle successive convenzioni giuridiche internazionali.
Sesta Lezione. La sicurezza o sarà per tutti o non sarà per nessuno. Il Covid19 lo ha reso ancora più evidente delle guerre. Nell’era della globalizzazione e dell’interdipendenza tutto è interconnesso e interdipendente. Nessuno può pensare di stare al sicuro pensando solo a sé stesso e agli amici. Le minacce sono globali e interconnesse. Sono ambientali ed economiche non solo militari. Per questo il nostro obiettivo deve essere la sicurezza umana e non più la sicurezza armata. Per quanto diverse e divergenti possano apparire le nostre culture e interessi, abbiamo un solo modo per farlo: lavorare assieme attorno a ciò che ci unisce, per affrontare le grandi sfide comuni e costruire una sicurezza comune”.

Il dibattito è aperto. L’umanitarismo non va in ferie. Tanto meno adesso che si sta consumando un’altra tragedia nel Grande Medio Oriente.

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PS Un pacifismo consapevole è anche un pacifismo che non smarrisce la memoria. Perché senza memoria non c’è futuro. E allora viene da chiedersi: chi si ricorda dei curdi siriani? Delle eroiche combattenti del Rojava? Anche loro, come oggi gli afghani, sono stati traditi dall’Occidente. In Rojava continua la barbara pulizia etnica da parte dell’esercito turco e dei miliziani tagliagole e stupratori al servizio del Sultano di Ankara (Recep Tayyp Erdogan). E continua dopo che a dare il via libera era stato il presidente degli Stati Uniti, il mai a sufficienza vituperato Donald Trump, con il silenzio complice dell’Europa.  Ricordare è un dovere. Solidarizzare, pure. Perché pacifismo significa essere dalla parte giusta. Quella dei più indifesi tra gli indifesi.  E, fuor di retorica, significa essere i partigiani del Terzo Millennio.

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