In Afghanistan l'Italia ammaina la bandiera. Con vent'anni di ritardo
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In Afghanistan l'Italia ammaina la bandiera. Con vent'anni di ritardo

La bandiera ammainata è il simbolo di una fuga. La fuga di Stati Uniti e Nato dopo venti anni di una guerra disastrosa che lascia spazio allo scontro interno al campo jihadista tra Talebani, al-Qaeda e Isis

Si ammaina la bandiera dell'Italia in Afghanistan
Si ammaina la bandiera dell'Italia in Afghanistan
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8 Giugno 2021 - 15.54


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Quella bandiera ammainata è il simbolo di una fuga. La fuga, perché di ciò si tratta, di Stati Uniti e Nato dopo venti anni di una guerra disastrosa, che lascia spazio allo scontro interno al campo jihadista tra Talebani, al-Qaeda e Isis. La fuga dell’Italia. Dopo vent’anni di guerra.  Una missione in cui hanno perso la vita 54 militari e circa altri 700 sono rimasti feriti tra Herat e Kabul. 

E’ stata ammainata la bandiera nella base del contingente italiano, albanese e statunitense ad Herat. Con una cerimonia solenne, alla presenza del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, termina così simbolicamente la missione italiana in Afghanistan, durata per quasi venti anni. La smobilitazione della base è iniziata il primo maggio e vedrà liberato il luogo definitivamente tra qualche settimana. “Sono 53 le lacrime che non dimenticheremo”, ha detto il capo di Stato maggiore della Difesa, Vecciarelli, riferendosi ai militari italiani caduti. “Il vostro e il loro sacrificio ha dato risultati a livello internazionale”. Le operazioni di rimpatrio di uomini (erano 800 a inizio anno) e mezzi, avviate a maggio, si concluderanno a breve, in sintonia con l’accelerazione impressa dagli Usa che intendono lasciare il Paese entro metà luglio, in anticipo sulla data simbolica dell’11 settembre annunciata dal presidente Joe Biden. 

Fuga da un cimitero chiamato Afghanistan

 “Non vogliamo che l’Afghanistan torni ad essere un luogo sicuro per i terroristi. Vogliamo continuare a rafforzare questo Paese dando anche continuità all’addestramento delle forze di sicurezza afghane per non disperdere i risultati ottenuti in questi 20 anni”, afferma Guerini, in occasione dell’ammaina-bandiera. “Negherei dicendo che il quadro dell’Afghanistan si svilupperà in modo tranquillo e sereno – aggiunge il titolare della Difesa – accompagneremo le attività in campo economico e civile”.   

E’ un ammainabandiera che oggi ha un aspetto prettamente simbolico, fatto comunque con la rilevanza dovuta: alla cerimonia hanno presenziato  il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, il capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Enzo Vecciarelli, il comandante del COI, generale Luciano Portolano, il capo della missione ‘Resolute Support’ (ex missione Isaf), il generale statunitense Austin Scott Miller, quindi il generale Beniamino Vergori,  l’attuale responsabile del comando di Herat (che sostituisce il TAAC – Train Advice Assist Command) del settore Ovest del territorio afghano il cui controllo è appunto affidato all’Italia e che attualmente vede schierata la brigata Folgore, oltre al ten. col. Gianfranco Paglia, in rappresentanza delle medaglie al valore militare italiane, e autorità militari e civili locali. E’ un ammainabandiera simbolico del tricolore perché in realtà nella base italiana si continua a lavorare, si procede via via a smobilitare il resto del notevole materiale logistico destinato a rientrare in Italia, dove già dal primo maggio scorso una parte imponente vi ha fatto o vi sta facendo ritorno con l’impiego di aerei-cargo militari. 

l permesso di volo negato
Gli Emirati Arabihanno hanno negato a un Boeing 767 dell’Aeronautica militare il sorvolo nei loro cieli, costringendo il comandante Valentina Papa ad atterrare in Arabia Saudita (Dammam) e cambiare il piano di volo. Il velivolo, con a bordo 42 giornalisti e soldati dell’Esercito, era diretto a Herat per assistere alla cerimonia di ammaina bandiera del contingente italiano,.La cerimonia a causa dell’imprevisto è stata rinviata di circa 4 ore. Nessun problema per il titolare della Difesa che invece ha viaggiato su aereo civili, arrivando come previsto in mattina.

Su istruzione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio il segretario generale del ministero degli Esteri ambasciatore Ettore Sequi ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti Omar Al Shamsi. Lo rende noto la Farnesina. Sequi – aggiunge la nota – ha manifestato all’ambasciatore «la sorpresa e il forte disappunto per un gesto inatteso che si fa fatica a comprendere. Sul caso del volo negato dagli Emirati Arabi, Guerini ha rimarcato: “La questione non è dipesa da noi, sono state mosse alcune iniziative di carattere diplomatico, è stato convocato l’ambasciatore degli Emirati al ministero degli Esteri per chiedere spiegazioni e per manifestare tutto il disappunto e lo stupore per avere negato il sorvolo rispetto a decisioni che erano già state comunicate, assunte e garantite”. 

La trincea del Jihad

Gli  Stati Uniti, dopo gli attentati dell’11 settembre lanciarono nell’ottobre del 2001 l’offensiva contro l’ Afghanistan dei talebani, diventato un safe haven, un rifugio sicuro per i terroristi di al Qaeda.

Vent’ani dopo, in Afghanistan operano una costellazione di gruppi jihadisti, come il Network Haqqani, manovrato dai Servizi pachistani, e lo Stato islamico, che ha cellule nella capitale e controlla una piccola fetta di territorio al confine con il Pakistan.  L’Afghanistan non è l’Iraq o la Siria, dove gli affiliati all’Isis combattono i curdi, i cristiani e gli sciiti. Qui il potere è conteso ad altri sunniti, i Talebani, e più che per conquistare nuovi territori al “califfato”, si combatte per assicurarsi il controllo delle rotte del commercio dei narcotici. La “fabbrica” talebana di oppiacei mantiene salda la prima posizione mondiale, infatti l’eroina afghana raggiunge quasi tutto il globo. Due dati particolarmente indicativi: copre il fabbisogno del 90% del Canada e dell’85% circa delle richieste mondiali. La produzione e gestione del traffico di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani. Un traffico enorme, fortemente consolidato nella sua catena di produzione-vendita-incasso di milioni di dollari di profitti. Il prodotto viaggia sfruttando tutti i mezzi di trasporto: le rotte aeree e marittime permettono all’eroina afghana di giungere ovunque (eccetto il Sud America, qui vi sono i cartelli narcos che hanno il ‘loro’ prodotto). Le vie terrestri coinvolgono pesantemente Iran e Pakistan, costretti ad impiegare sempre più risorse per contrastare questi flussi. Lo Stato islamico è entrato in questa partita. La provincia di Nangarhar, nella parte orientale del Paese, al confine con il Pakistan, e ora è in buona parte occupata dall’Isis. L’invasione è cominciata nell’estate del 2014, quando dal confine sono arrivati un centinaio di talebani pakistani che, dopo essere scappati dall’esercito, si sono uniti a una fazione di talebani afghani. 

Il fallimento dell’Occidente

Nel gennaio 2017, l’Isis ha annunciato la nascita di una nuova fazione locale in Afghanistan, alla quale hanno velocemente aderito molti fuoriusciti dai talebani: gli afghani di Nangarhar non lo sapevano, ma si trattava proprio dei pakistani rifugiati nelle loro case. Dopo un anno di alleanza con i talebani afghani, in estate, l’Isis è venuto allo scoperto predicando in moschea un islam rigidamente wahabita (lo stesso professato in Arabia Saudita).  A luglio 2017 sono cominciati i primi scontri a fuoco tra i talebani afghani e i pakistani, passati all’Isis.   Dopo un mese circa di combattimenti, l’Isis si è impossessato della zona, nonostante gli americani bombardassero sia loro che i talebani. Passando villaggio per villaggio e casa per casa, i jihadisti hanno rubato i mezzi di sostentamento ai residenti, distruggendo scuole e madrasse talebane, imponendo una nuova legge. Le abitazioni dei talebani sono state bruciate e chi veniva sospettato di essere loro alleato è stato rapito e seviziato. 

 Una recente inchiesta della Bbc metteva in evidenza come l’adesione allo Stato islamico fosse divenuta economicamente più appetibile per gli afghani, considerato lo stipendio di 500$ mensili, cui il movimento talebano (in guerra dal 2001) non può sicuramente entrare in concorrenza. Il pericolo di un progressivo sbilanciamento di forze a favore delle bandiere nere era stato denunciato dallo stesso leader Mullah Omar, ora defunto, in una lettera proprio rivolta al Califfo al-Baghdadi, anche lui passato a miglior vita. Nella stessa, il Mullah intimava il fu Califfo di “non cercare di penetrare in Afghanistan” e che la sua azione stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano. E a rendere ancora più ingovernabile il Paese è la frammentazione etnico-tribale, che ha assunto tratti sempre più profondi: alla maggioranza etnica Pashtun, si aggiungono

Tajiki, Hazara, Uzbechi, Aimak, Turkmeni e Baluchi

Dopo venti anni di guerra, lo Stato afghano appare oggi una entità fallita. Venti anni di guerra, ovvero oltre 140 mila morti, tra cui almeno 26 mila civili. A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati Nato (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri. Una guerra costata 900 miliardi di dollari, 7,5 per l’Italia. Afghanistan, 2001-2021: storia di un fallimento. Militare e politico. Perché la Nato non è riuscita né a sconfiggere i talebani, né a riportare la pace né a ricostruire un esercito in grado di contrastarli.

 Sul terreno si assiste ad una competizione per la leadership del terrore tra l’Isis, che sta arruolando i Pashtun, e al Qaeda 2.0. Una concorrenza che non oscura il dato di realtà: l’idea del “califfato” prende sempre più piede, e territori, in Afghanistan. E il “futuro” assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento militare dell’ottobre 2001: un Paese-santuario dell’islam radicale armato.

Il “male minore”

E così, nella logica delle alleanze variabili che connota, in politica estera, l’agire americano (prima e dopo Trump) i talebani possono diventare il “male minore” con cui venire a patti, come sta accadendo in Siria con Bashar al-Assad.  Resta il fatto, incontestabile, che dall’avvio della “guerra al terrorismo” qaedista, nell’ottobre 2001, l’Afghanistan è un Paese che non sa cosa sia la pacificazione, dove a prosperare sono solo i traffici di armi e di droga. Un Paese dove imperano milizie jihadiste, “signori della guerra” e califfi eterodiretti; un Paese dove nessuno può dirsi al sicuro. Per il giornalista francese Jean-Pierre Perrin, autore del libro Le djihad contre le rêve d’Alexandre, una storia dell’Afghanistan dal 330 a.C. ai giorni nostri, gli occidentali hanno già perso: “I Paesi occidentali non vogliono riconoscere questa umiliante sconfitta. E ancora meno sono disposti ad accettare che sia stata inflitta loro da bande di irregolari male armati, male addestrati, poco equipaggiati e dieci volte meno numerosi. Questa sconfitta ci riporta ai fallimenti degli invasori precedenti: gli inglesi in tre occasioni – e la prima volta risaliva a qualche anno dopo la vittoria su Napoleone – i russi e prima di loro altri eserciti stranieri meno importanti come gli iraniani. Del resto non è un caso se l’Afghanistan è chiamato il ‘cimitero degli imperi’”.  Un “cimitero” dal quale tutti stanno per andarsene. Senza, però, dare l’idea di una fuga dalla sconfitta.

Quanto all’accordo di “pace” Usa-Talebani, vale quanto scritto a suo tempo  da Franco Venturini sul Corriere della Sera:” È la pace di Donald Trump, che vuole avere il tempo e il modo di ritirare dalla ‘Tomba degli imperi’ afghana quasi tutti i suoi 13.000 soldati prima delle elezioni presidenziali di novembre, e che già tra 135 giorni potrà esibire agli elettori statunitensi una riduzione del contingente a 8.600 uomini. Quanto dovrebbe bastargli per rimanere alla Casa Bianca. Già tra 135 giorni il Presidente potrà esibire agli elettori statunitensi una riduzione del contingente a 8.600 uomini. Quanto dovrebbe bastargli per rimanere alla Casa Bianca. È la pace dei Talebani, ai quali per tornare al potere viene chiesta soltanto la stessa pazienza che ebbero i nordvietnamiti quando gli statunitensi cominciarono a ripiegare, fino a quell’ultimo sovraccarico elicottero in partenza nel 1975 dal tetto dell’ambasciata di Saigon. Forse si può sperare che sia anche la pace delle popolazioni civili afghane, che hanno pagato un prezzo esorbitante alla ferocia o alla mancanza di cautela di entrambi gli schieramenti. Ma non è la pace, questa, degli afghani che si sono battuti con enormi perdite a fianco degli occidentali, e che ora sono stati esclusi dai negoziati con i Talebani in cambio di un vago dialogo interafghano’”.

Quell’accordo spacciato per “pace” non è servito a Trump per restare alla Casa Bianca. Per il resto, le considerazioni di Venturini valgono per l’oggi. E per un futuro che per l’Afghanistan è un ritorno al passato. 

Un rapporto riservato dell’intelligence Usa – già abbozzato durante la presidenza Trump ma tenuto nel cassetto per non irritare l’inquilino della Casa Bianca – rivelato di recente dal New York Times – conferma che in caso di ritiro delle truppe occidentali gli integralisti riprenderebbero subito il potere.  Una previsione che si sta trasformando in realtà. Una realtà-incubo per il popolo afghano. 

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