Libia e Mediterraneo: operazione-bavaglio contro i giornalisti scomodi

 Sotto la lente della Procura di Trapani che indaga su Jugend Rettet, Save The Children e Medici Senza Frontiere non sono finite solo le Ong ma anche diversi giornalisti italiani

Ocean Viking salva un gruppo di migranti davanti alle coste della Libia
Ocean Viking salva un gruppo di migranti davanti alle coste della Libia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

3 Aprile 2021 - 10.38


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Testimoni scomodi. Scomodi per coloro che hanno diverse vergogne da nascondere sotto il tappeto. Costoro hanno prima provato a svuotare il Mediterraneo dalle navi salvavita delle Ong. Lo hanno fatto ministri di “sinistra” e sovranisti muscolari amici di Orban. Lo hanno fatto a colpi di decreti, di una criminalizzazione mediatica (i “taxi del mare” le definì l’attuale ministro degli Esteri). Lo hanno fatto con i famigerati decreti sicurezza di salviniana memoria. Lo hanno fatto usando anche l’”arma” giudiziaria. E non si sono fermati. Perché per andare in porto, la cancellazione di testimoni scomodi doveva investire anche i giornalisti. Quelli più impegnati nel tirare fuori verità scomode sui misfatti, e i crimini, consumati nei lager libici e nel mar della morte, il Mediterraneo. 

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Testimoni scomodi

Scomodi perché hanno raccontato le connivenze, più o meno occulte, che l’Italia ha avuto con loschi personaggi legati al traffico di esseri umani. Criminali riciclati nella cosiddetta Guardia costiera libica, un’associazione a delinquere a cui i governanti italiani hanno affidato il remunerato incarico dei respingimenti. Il lavoro sporco che sta al fondo dell’esternalizzazione delle frontiere. Tutti nel mucchio: organizzazioni umanitarie come Save the Children e Medici Senza Frontiere e giornalisti d’inchiesta (sì ce ne sono ancora anche nel Paese di una stampa sempre più mainstream).

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 Sotto la lente della Procura di Trapani che indaga sul ruolo delle ong Jugend RettetSave The Children e Medici Senza Frontiere durante gli sbarchi dal 2016 non sono finite solo le organizzazioni che si occupavano del soccorso in mare dei naufraghi, ma anche diversi giornalisti italianiintercettati dalle forze dell’ordine nel periodo in cui raccontavano la rotta migratoria nel Mediterraneo e le condizioni nelle quali i migranti venivano detenuti nei lager libici.

A rivelarlo sul quotidiano Domani è Andrea Palladino, che ha avuto accesso a centinaia di pagine di telefonate intercettate, trascritte e depositate nell’inchiesta trapanese. La storia è stata poi ripresa anche dal Guardian.

Tra i reporter finiti nel mirino della polizia giudiziaria – lo Sco, la squadra mobile di Trapani e il comando generale della Guardia costiera – c’è il giornalista del Fatto QuotidianoAntonio Massari, registrato mentre parlava con delle fonti. Fu lui poi a rivelare, nell’agosto del 2018, i rapporti tra gli operatori della Imi e Matteo Salvini.

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Il caso più eclatante è quello della freelance Nancy Porsia. Esperta di Libia, dove si è recata molte volte per realizzare i suoi reportage, Porsia è stata intercettata a lungo, anche durante le telefonate con il proprio avvocato, Alessandra Ballerini, nelle quali si diceva preoccupata per le minacce ricevute dalle milizie libiche guidate dal trafficante Bija che, insieme ad Avvenire, ha contribuito a smascherare, dimostrando con immagini anche la sua presenza a un incontro al ministero dell’Interno quando a guidarlo era Marco Minniti.

Il suo lavoro occupa ben 22 pagine, con fotografie, contatti sui social, rapporti personali e nomi di fonti sul campo, oltre ai suoi contatti con altri giornalisti italiani e internazionali, i suoi movimenti e anche alcuni dati personali. Un’intercettazione che, scrive il quotidiano, è stata richiesta e autorizzata con la funzione di “positioning”, ovvero con il tracciamento degli spostamenti dell’utente. Tutti dati assolutamente irrilevanti per le indagini in corso, visto anche che Nancy Porsia non risulta indagata. “Nella telefonata con il legale – si legge -, che la legge vieta di trascrivere e divulgare a tutela dei diritti della difesa, viene dichiarato apertamente il rapporto fiduciario. Nella sintesi della telefonata vengono anche riportati spostamenti al Cairo dell’avvocato Ballerini in quanto legale della famiglia di Giulio Regeni“.

Ma ci sono altri giornalisti italiani che si sono occupati della questione migranti e che sono stati intercettati nel corso delle indagini. C’è anche l’inviato di Avvenire Nello Scavo, anche lui oggetto di minacce da parte dei clan libici, che viene intercettato mentre parla con una sua fonte sulle modalità per ricevere un video che dimostra le violenze subite dai migranti in Libia. Si trovano inoltre le conversazioni della giornalista Francesca Mannocchi con esponenti delle ong, dove si fa riferimento ai viaggi in Libia. E si trovano anche i colloqui del reporter di Radio Radicale Sergio Scandura mentre chiedeva informazioni ad alcuni esponenti di organizzazioni umanitarie, impegnate in quei mesi nei salvataggi dei migranti. Nelle carte compaiono anche i nomi e le conversazioni dell’inviato  del Giornale, Fausto Biloslavo, e della giornalista di Report Claudia Di Pasquale, quest’ultima mentre parlava proprio con Nancy Porsia.

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Un po’ di storia.

Comandante delle brigate “Anas al-Dabbashi”, dal nome di un familiare martire della jihad, Ahmed al-Dabbashi detto “Ammu’” (lo zio), opera a Sabratha e fino al 2016 aveva saldi legami con lo Stato islamico in Libia, che dice di combattere mentre secondo il Palazzo di Vetro farebbe il doppio gioco. La sua è una delle famiglie più in vista del Paese. La rotta migratoria dal Niger è appannaggio dei suoi uomini che si occupano anche della sicurezza della Mellitah Oil&Gas, legata all’Eni. È accusato di guidare una rete di traffici sovranazionali di esseri umani, armi e greggio. A Zawiya controllerebbe spiagge per la partenza di migranti, case per la detenzione anche di minori e barche. Avrebbe sulla coscienza morti in mare e nel deserto. Ed è da questo territorio che partivano, tra il 2016 ed il 2017, la gran parte dei barconi che in Italia hanno comportato numeri da record di sbarchi.

 Un’emergenza, quella creata nel nostro Paese, che costrinse il governo Gentiloni a provare a correre ai ripari. E così, ecco che nella primavera del 2017 sotto la regia del ministro dell’Interno Marco Minniti iniziarono le trattative con Tripoli per provare a frenare il flusso migratorio. In questo contesto sono state poste le basi per il memorandum con la Libia, che ha previsto soldi al governo di Tripoli in cambio dello stop alle partenze.

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 Un reportage della Reuters ha successivamente accusato il governo italiano di aver fatto finire quei soldi nelle casse dei  clan che organizzavano i viaggi della speranza, che in molti casi si trasformavano in viaggi della morte. Tra questi, clan, ovviamente, figurava anche il gruppo degli al- Dabbashi. Roma ha sempre smentito, fatto sta che le partenze dall’autunno del 2017 sono diminuite ed a Sabratha è scoppiata una faida. Alcuni clan rivali degli al- Dabbashi hanno ingaggiato una vera e propria battaglia contro gli uomini di “ Ammu”.

La “Dabbashi &Co.”

I fratelli Dabbashi erano,e forse sono tuttora, i “re dei trafficanti” di esseri umani: Ahmad e Mehemmed erano infatti responsabili dell’80 % delle partenze di migranti dalle coste libiche in direzione Italia, un “affare milionario”. La quota minima da pagare per salire a bordo dei barconi della “Dabbashi & Co.” era 1000 dollari: questo il prezzo di un biglietto della speranza che tuttavia non comprendeva l’assicurazione sulla vita in caso di annegamento.  Da trafficanti di esseri umani i fratelli Dabbashi sono diventati dei perfetti poliziotti anti-migranti, e lo dimostrano i numeri degli sbarchi che sono crollati notevolmente nel giro di pochi mesi. Per convincere l’impresa familiare a cambiare attività sono serviti 5 milioni di euro, gentilmente elargiti dal governo libico e forse quello italiano, con la promessa che Ahmad e Mehemmed ne usciranno puliti e le loro milizie verranno legalizzate.”Chi avrebbe mai detto che in pochissimi anni sarebbe diventato il bandito più famoso della regione, contrabbandiere di petrolio e trafficante di esseri umani, sino a trasformarsi adesso in poliziotto anti migranti per eccellenza, che tratta con il governo di Tripoli e persino con quello italiano ?” dice Mohammad, vecchio vicino di casa di Ahmad, ma sono in tanti a Sabratha a condividere queste parole.

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Relazioni pericolose

Come ricorda l’Agenzia Nova, la famiglia Dabbashi è uno dei clan più noti di Sabratha. Uno zio di Fitouri Dabbashi, -il capo clan morto in uno scontro a fuoco l’11 settembre 2019 ad Ain Zara, a sud di Tripoli- Ibrahim al-Dabbashi, è stato ambasciatore alle Nazioni Unite. Il fratello di” al-Ammu”, Emhedem, guida la Brigata 48, forza nata da un accordo con il ministero della Difesa e che, secondo fonti libiche riportate da L’Espresso, aveva come unico scopo quello di proteggere gli interessi di “Al-Ammu “e gestire la sicurezza al compound di Mellitah, joint venture tra Eni e la società petrolifera nazionale libica Noc. Non è chiaro, invece, quale sia stato il ruolo della famiglia nel sequestro dei quattro tecnici italiani della Bonatti nel 2015, due dei quali morti nella sparatoria per la loro liberazione. 

Segreti inquietanti

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 Quattordici settembre 2017. Fra i trafficanti libici e l’Italia sono stati stipulati piccoli accordi contro i migranti”. Dopo i reportage di Reuters e Associated Press anche Le Monde accende i riflettori sui motivi che starebbero dietro allo stop delle partenze di migranti dalle coste libiche. Il quotidiano francese dedica all’argomento il titolo di apertura dell’edizione del pomeriggio e le prime due pagine interne.

Le Monde spiega di aver parlato al telefono con una personalità di Sabratha, la città costiera della Tripolitania diventata l’hub principale del traffico di esseri umani in Libia. “C’è un accordo tra gli italiani e la milizia di Ahmed al-Dabbashi. L’ex trafficante oggi fa la guerra contro il traffico di esseri umani”, scrive il giornalista citando la fonte, che vuole rimanere anonima. L’articolo spiega che “al-Dabbashi, soprannominato al-Ammu (lo zio), è il capo della brigata dei martiri Anas al-Dabbashi, che fino a luglio dominava il traffico di migranti da Sabratha”. Le informazioni coincidono con quelle contenute nel reportage di Associated Press e anche del Corriere della Sera. Una fonte di AP aveva definito al-Dabbashi e il fratello “i re del traffico” di migranti.

Abdel Salam Helal Mohammed, un dirigente del ministro degli Interni del governo di Tripoli che si occupa di immigrazione, ha raccontato che l’accordo è stato raggiunto durante un incontro fra italiani e membri della milizia Al Ammu, che si sono impegnati a fermare il traffico di migranti (cioè loro stessi o dei loro alleati, in sostanza). Dell’incontro aveva parlato anche la giornalista Francesca Mannocchi in un articolo pubblicato pubblicato da Middle East Eye il 25 agosto 2017, senza però trovare conferme ufficiali. Anche il portavoce di Al Ammu, Bashir Ibrahim, ha confermato ad Associated Press che circa un mese fa, luglio 2017,  entrambe le milizie hanno stretto un accordo “verbale” col governo italiano e quello di Sarraj per fermare i trafficanti. Sempre secondo Bashir, l’accordo prevede che in cambio del loro aiuto le milizie ottengano soldi, barche e quello che Associated Press definisce “equipaggiamento” (non è chiaro se si tratti o meno di armi).

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Il servizio di intelligence della polizia locale ha spiegato al Corsera che “che ultimamente (lo “Zio,” ndr) avrebbe ricevuto almeno 5 milioni di euro dall’Italia, se non il doppio, con la piena collaborazione del premier del governo di unità nazionale riconosciuto dall’Onu, Fayez al Sarraj”.

L ’articolo, di AP, intitolato “Backed by Italy, Libya enlists militias to stop migrants”, attribuisce questa notevole diminuzione di arrivi ad un’intesa sottobanco tra il governo italiano e alcuni gruppi armati libici: “Il calo sembra essere in gran parte dovuto ad accordi con le due milizie più potenti della città occidentale libica di Sabratha”. Le due milizie in questione sono la Brigata 48 e la Brigata del martire Anas al-Dabbashi, guidate da due fratelli dell’influente clan al-Dabbashi. “I funzionari della sicurezza e gli attivisti di Sabratha intervistati dall’AP hanno affermato che dirigenti italiani si erano incontrati con i leader della milizia”, si legge nello stesso articolo. Inoltre, sempre secondo la AP, “dal 2015 (quando Matteo Renzi era primo ministro, ndr), la sorveglianza del sito petrolifero di Melitah, dove opera l’Eni, è affidato alla milizia di al-Ammu”. Da questo quadro remerge chiara l’ambiguità dello Stato italiano nei confronti della situazione in Libia. Questa ambiguità è stata evidenziata da un’inchiesta pubblicata il 4 ottobre di quest’anno dal quotidiano l’Avvenire intitolata La trattativa nascosta.. Dalla Libia a Mineo, il negoziato tra l’Italia e il boss. Da questa inchiesta risulta che l’11 maggio 2017 funzionari dello Stato italiano incontrarono rappresentanti delle autorità libiche per discutere del blocco delle partenze di profughi e migranti. Alla riunione partecipò Abd al-Rahman al-Milad, alias “Bija”, capo della Guardia costiera libica della zona Ovest.

 Quest’uomo è “accusato dall’Onu di essere uno dei più efferati trafficanti di uomini in Libia, padrone della vita e della morte nei campi di prigionia, autore di sparatorie in mare, sospettato di aver fatto affogare decine di persone, ritenuto a capo di una vera cupola mafiosa ramificata in ogni settore politico ed economico dell’area di Zawiya, aveva ottenuto un lasciapassare per entrare nel nostro Paese e venire accompagnato dalle autorità italiane a studiare il ‘modello Mineo’”, scrive Nello Scavo, autore dell’inchiesta.

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Cambiano i governi e le maggioranze, ma Roma resta sempre sotto scacco. E reagisce cercando di colpire i testimoni scomodi.

 

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