Nel Myanmar golpista l'esercito massacra i manifestanti anche con cartucce italiane

Alcune organizzazioni hanno scritto all’azienda Cheddite Italy per chiedere chiarimenti in merito a un bossolo di una cartuccia sparata dalla polizia locale contro un'ambulanza che trasportava dei feriti. 

Manifestazione di protesta in Myanmar
Manifestazione di protesta in Myanmar
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

31 Marzo 2021 - 15.13


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Se confermata, l’Italia sarebbe complice dei generali golpisti che stanno reprimendo nel sangue la rivolta popolare. Uccisi anche con cartucce italiane. Amnesty International Italia, Atlante delle guerre e dei conflitti del Mondo, Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal), Italia-Birmania.

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Insieme e Rete Italiana Pace e Disarmo, hanno scritto all’azienda Cheddite Italy S.r.l., con sede a Livorno, per chiedere chiarimenti in merito al ritrovamento a Yangon, in Myanmar, di un bossolo di una cartuccia sparata dalla polizia locale contro un’ambulanza che trasportava dei feriti.  Dalle informazioni diffuse dal quotidiano locale “The Irrawaddy” il bossolo riporta chiaramente la scritta “Cheddite” e il calibro 12. Altri bossoli della stessa Cheddite sono stati utilizzati dalle forze di sicurezza contro i manifestanti nei giorni successivi. In seguito altre cartucce sono state ritrovate in altre località del Paese come documentano numerosi scatti postati sui social media.

 Violenze e repressione in atto da parte delle forze militari in Myanmar

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Con il passare delle settimane l’esercito birmano sta usando metodi sempre più letali e armi solitamente utilizzate in contesti bellici, contro manifestanti pacifici e passanti casuali in tutto il Paese. Dal colpo di Stato militare del 1° febbraio 2021, la popolazione ha organizzato manifestazioni ovunque, principalmente non violente. La risposta delle forze di sicurezza e dei militari, invece, è stata una repressione brutale. È molto preoccupante, inoltre, la sorte dei giornalisti birmani – che per primi hanno dato notizie del ritrovamento di bossoli italiani in Myanmar – oggetto di censure, intimidazioni e arresti. 

Secondo l’Associazione di Assistenza ai Prigionieri Politici (AAPP) ad oggi sono stati uccisi oltre 500 manifestanti, e oltre 2570 sono le persone arrestate.

Dopo aver analizzato più di 50 video della repressione in corso, il Crisis Response Evidence Lab di Amnesty International è in grado di confermare che le forze di sicurezza sembrano perseguire strategie pianificate e sistematiche, compreso l’uso crescente della forza letale. Molte delle uccisioni documentate possono essere considerate delle esecuzioni extragiudiziali.

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Tra le armi impiegate, foto e video mostrano anche che la polizia ha accesso alle cosiddette armi convenzionali meno letali. Nello scorso weekend il livello dello scontro si è alzato notevolmente con l’uso di raid aerei su villaggi Karen.

 Chiarimenti su esportazioni di munizioni 

Le organizzazioni della società civile sono a conoscenza dell’iscrizione dal 2014 della Cheddite S.r.l. al Registro del Ministero della Difesa per le imprese esportatrici di armamenti ai sensi della Legge 185/90.  Non risulta, però, alcuna menzione dell’azienda negli elenchi delle autorizzazioni rilasciate da UAMA negli anni successivi. E’ pertanto probabile che tutte le esportazioni di munizioni siano avvenute secondo le norme previste dalla Legge 110/75 (che regolamenta le esportazioni di armi e munizioni di tipo “comune, sportivo o da caccia”) o tramite joint ventures o aziende intermediarie. 

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Le organizzazioni italiane hanno chiesto quindi informazioni riguardo al lotto con codice: Produzione 1 luglio 2014 – Lotto 1410?807, ricostruito grazie alle immagini dei bossoli sparati dalla polizia in Myanmar e poiché la società turca Yavaşçalar YAF, un marchio della società turca Zsr Patlayici Sanayi A.S., utilizza proiettili di gomma con componenti di munizioni prodotte dalla società Cheddite S.r.l.  Da un’attenta analisi del registro del commercio internazionale delle Nazioni Unite (Comtrade) risultano nel 2014 diverse forniture di fucili e munizioni dalla Turchia a Myanmar: si tratta, nello specifico, di 7.177 tra fucili di tipo sportivo o da caccia per un valore di 1.452.625 dollari con in aggiunta 2.250 “parti e accessori” e di 46mila munizioni del valore di 223.528 dollari. Di fronte a questi dati, le organizzazioni hanno chiesto di conoscere se:

  • gli accordi di licenza di esportazione con Zsr Patlayici Sanayi A.S consentono in qualche modo l’esportazione di munizioni riportanti il marchio Cheddite S.r.l. in Myanmar; 
  • se l’azienda turca può esportare, più o meno direttamente, munizioni col marchio Cheddite S.r.l. in Myanmar e specificatamente alle forze di polizia e di pubblica sicurezza di quel Paese;
  • tutto ciò è avvenuto col consenso della Cheddite S.r.l..

Il tema è stato anche ripreso nel dibattito parlamentare: sono state infatti presentate alcune interrogazioni al Ministro degli Esteri che chiedono chiarimenti sulla vendita di queste munizioni, stante l’embargo imposto dall’Unione Europea nel 1991, e sollecitano una verifica sul rispetto della normativa e sul controllo dei flussi relativi al commercio di munizioni e munizionamento di ogni tipologia. Anche il Consiglio Onu dei Diritti Umani, con una importante Risoluzione, martedì 24 marzo ha raccomandato alle aziende presenti in Myanmar o che hanno legami di affari col paese di non svolgere alcuna attività economica che possa favorire l’esercito o le aziende da esso possedute o controllate.

Tali richieste si basano sugli standard globali su imprese e diritti umani, ovvero sui Principi guida delle Nazioni Unite (UNGP) su business e diritti umani, approvati all’unanimità dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel giugno 2011, secondo i quali le aziende produttrici di armi sono tenute a valutare i rischi non solo nelle operazioni aziendali e lungo la catena di approvvigionamento, ma nell’utilizzo finale dei loro prodotti – incluse parti e componenti –una volta acquisiti dalle forze armate o delle forze dell’ordine.

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Embargo ai golpisti

“Chiediamo al Consiglio di sicurezza dell’Onu un embargo complessivo sulle armi, sanzioni mirate nei confronti dei militari accusati di atroci violenze, e di interessare il Tribunale penale internazionale sulle violazioni e sui crimini delle forza armate per soffocare le proteste”. Sono le parole di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, a commento delle notizie che arrivano dal Myanmar dopo il golpe miliare che ha rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi il primo febbraio

A due mesi dal colpo di stato, si registra un forte aumento dell’uso della violenza per mettere fine alle proteste pacifiche organizzate in tutto il paese. “Ci sono 50 milioni di birmani presi in ostaggio dal colpo di stato del primo febbraio – rimarca Noury – . Secondo l’Associazione di assistenza dei prigionieri politici, un’organizzazione locale per i diritti umani con cui siamo in contatto, ci sono stati più di 400 morti e centinaia di feriti. In Myanmar c’è un clima di terrore, soprattutto all’indomani dell’annuncio delle forze armate, che hanno dichiarato alla radio che i manifestanti potrebbero correre il rischio di essere ‘colpiti da un proiettile alla testa o alla schiena’”.

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Sabato scorso, nella capitale Naypyidaw, si festeggiava la Giornata delle forze armate e alla parata militare erano presenti vertici militari cinesi e russi. È stato il giorno con il peggior bilancio dall’inizio delle proteste: in 24 ore ci sono state almeno 114 vittime. “Cina e Russia sono le due potenze che più sostengono la nuova giunta miliare – spiega Noury –. La Cina dà una copertura pressoché totale, mentre la Russia sta fornendo armi e sta cercando di stringere i rapporti con il regime. Inoltre, pare che siano stati rinvenuti anche bossoli di proiettili italiani, che probabilmente sono arrivati lì attraverso delle triangolazioni. Ora insieme alla Rete Italiana Pace e Disarmo stiamo facendo le dovute indagini e ci sono interrogazioni parlamentari in corso”.

E anche gli arresti non si fermano: secondo l’Associazione per l’assistenza dei prigionieri politici, al 14 marzo le persone fermate erano almeno 2.156, di queste 1.837 risulterebbero ancora detenute con imputazioni fittizie. Tra loro molti attivisti, difensori dei diritti umani, giornalisti e membri della società civile, oppositori del regime. L’esercito birmano rafforza ogni giorno la stretta sulle telecomunicazioni, censurando i siti web e installando strumenti di sorveglianza. Amnesty scrive che c’è molta preoccupazione per l’accesso degli aiuti umanitari alle popolazioni che vivono nei campi profughi interni al paese, e per le migliaia di nuovi sfollati in seguito agli scontri tra l’esercito nazionale e quelli delle minoranze etniche armate, oppure tra eserciti rivali delle stesse minoranze. Di questi fanno parte anche i rohingya.

Il 24 marzo il Consiglio Onu ha adottato una risoluzione sulle violazioni dei diritti umani in corso in Myanmar, raccomandando alle aziende presenti in Myanmar o che hanno legami di affari col paese di non svolgere alcuna attività economica che possa favorire l’esercito o le aziende da esso possedute o controllate. “Da parte della comunità internazionale ci sono molte parole, ma mancano i fatti – conclude Noury –. Ecco perché abbiamo chiesto al Consiglio di sicurezza dell’Onu di procedere con il deferimento della situazione di Myanmar al Tribunale penale internazionale, l’introduzione di un embargo generale sulle armi e l’adozione di sanzioni economiche mirate nei confronti degli alti comandi delle forze armate accusati di crimini atroci. Ma Russia e Cina potrebbero mettere il veto. Se si avvia un negoziato e alla fine si produce un testo annacquato, in cui si invitano le parti a dialogo, l’azione non sarà più efficace”.

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L’inerzia internazionale e l’eroismo dei manifestanti

“Il continuo rifiuto degli Stati membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di agire in modo significativo contro questo orrore senza fine è spregevole”: lo afferma Ming Yu Hah, vicedirettore regionale per le campagne di Amnesty International, precisando che “l’uccisione di quasi 100 persone oggi in Birmania è solo l’ultimo esempio della determinazione delle autorità militari di eliminare la resistenza nazionale al colpo di Stato. Questi orribili omicidi mostrano ancora una volta lo sfacciato disprezzo dei generali per l’inadeguata pressione esercitata finora dalla comunità internazionale”.    “Il costo dell’inazione internazionale – ha proseguito – viene conteggiato nei corpi, compresi i bambini uccisi a colpi di arma da fuoco nelle loro case. In mezzo all’orribile bilancio delle vittime c’è una nazione di oltre 50 milioni di persone tenuta in ostaggio, sottoposta ad arresti arbitrari e sorveglianza a 360 gradi, che vive nella paura della morte e della tortura”. 
    “Il popolo del Myanmar continua a protestare, il tutto mentre piange sempre più uccisioni di ora in ora – a proseguito -. Le nazioni che hanno partecipato oggi agli eventi della Giornata delle forze armate dei militari nella capitale Naypyidaw, in particolare Cina e Russia, sono gli stessi Stati che hanno protetto il Tatmadaw (l’esercito birmano) dalle responsabilità più e più volte, fornendo loro i mezzi per svolgere un massacro di massa. 

Nonostante la sanguinosa repressione, l’altro ieri i manifestanti sono nuovamente scesi in piazza. Quattordici civili sono morti, la maggior parte nell’est di Yangon (ex Rangoon), la capitale economica del Paese. Di fronte a questo bagno di sangue, Washington ha annunciato l’immediata sospensione dell’accordo quadro su commercio e investimenti concluso nel 2013 con la Birmania, fino al ristabilimento di un governo “democraticamente eletto”. La Francia ha denunciato “la violenza indiscriminata e omicida” del regime e ha chiesto il rilascio di “tutti i prigionieri politici”, compresa Aung San Suu Kyi, ancora in isolamento. Il Regno Unito, da parte sua, ha chiesto una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che si svolgerà oggi  a porte chiuse. Ma i generali birmani finora non hanno ascoltato le proteste e le sanzioni occidentali. Hanno anche potuto contare sulle divisioni della comunità internazionale. La Cina e l’India si sono rifiutate di condannare formalmente il colpo di Stato. La Russia mantiene stretti legami con la giunta militare: sabato il vice ministro della Difesa russo Alexander Fomin ha partecipato alla parata annuale delle forze armate birmane. Il Cremlino si dice certamente preoccupato per il numero “crescente” dei morti, ma ha dichiarato che la Birmania resta un “alleato affidabile e un partner strategico” con cui vuole rafforzare le sue relazioni militari. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha esortato la comunità internazionale a “più unità” e “più impegno” per fare pressione sulla giunta militare birmana.

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Un appello destinato a cadere nel vuoto. Ieri in Siria, oggi in Birmania. Al Palazzo di Vetro scatta la protezione cino-russa dei macellai di turno.   

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