Israele, un governo da incubo prossimo futuro
Top

Israele, un governo da incubo prossimo futuro

Domani Israele vota, per la quarta volta in due anni. Un viaggio oltre la politica, che ha provato, con articoli, reportage, interviste, a scavare dentro la psicologia di una nazione

Benjamin Netanyahu
Benjamin Netanyahu
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Marzo 2021 - 15.33


ATF

Il viaggio “elettorale” di Globalist è giunto al termine. Domani Israele vota, per la quarta volta in due anni. Un viaggio che ha avuto delle guide eccezionali: le migliori firme del giornalismo israeliane. Un viaggio oltre la politica, che ha provato, con articoli, reportage, interviste, a scavare dentro la psicologia di una nazione, senza indulgenze né pregiudizi. Domani sera sapremo come è andata. Ma una cosa è certa: la partita è tutta a destra. La sinistra lotta per la sopravvivenza. 

Ultima fermata

A dar conto del clima elettorale è l’editoriale di Haaretz

“Abbiamo un’opportunità unica di stabilire un governo completamente di destra”, è il messaggio centrale della pubblicità elettorale di Benjamin Netanyahu. Questo governo comprenderebbe il Likud, i partiti ultraortodossi (Haredi), il Sionismo Religioso e Yamina. La prospettiva di un tale governo dovrebbe preoccupare qualsiasi cittadino che crede nella democrazia e nell’uguaglianza. Ogni governo Netanyahu finora ha incluso partiti del centro e persino della sinistra. Che si trattasse di Moshe Kahlon e del suo partito Kulanu, che ha bloccato la legislazione che avrebbe permesso alla Knesset di annullare i rigetti dell’Alta Corte di leggi incostituzionali, o di Avi Nissenkorn e Benny Gantz che proteggevano il ministero della Giustizia – tutti hanno fermato le mosse estreme e ridotto i danni potenziali di Netanyahu e dei suoi tirapiedi. Un governo di Netanyahu-Yaakov Litzman-Arye Dery-Naftali Bennett-Bezalel Smotrich-Itamar Ben Gvir, in cui il Likud sarebbe il fianco sinistro, sarebbe un governo da incubo che potrebbe spingere Israele sull’orlo del baratro.

Un tale governo cercherebbe di licenziare il procuratore generale Avichai Mendelblit, che è stato indicato da Netanyahu e dalla sua banda come il principale cospiratore contro Netanyahu e il sarto dei casi contro di lui, e di bloccare la nomina permanente del procuratore di Stato ad interim Amit Aisman, un incaricato di Kahol Lavan, sostituendoli entrambi con associati di Netanyahu. Con un tale procuratore generale e procuratore di stato, il governo può portare avanti iniziative per ritardare o cancellare il processo di Netanyahu su tre casi di corruzione. Ma questo non sarebbe sufficiente finché la magistratura rimane indipendente e l’Alta Corte di Giustizia ha il potere di rovesciare le leggi incostituzionali. Ecco perché un governo completamente di destra cercherà di indebolire il sistema giudiziario, castrare i guardiani e legiferare la clausola di annullamento. Poi potrà anche perseguitare i richiedenti asilo, imprigionarli a tempo indeterminato ed espellerli con la forza dove vuole. Potrà espandere la costruzione negli insediamenti, legalizzare gli avamposti illegali, ignorare i disordini dei giovani sulle colline e lavorare per annettere i territori occupati senza naturalizzare i palestinesi che ci vivono. In altre parole, trasformerebbe l’occupazione in una situazione di apartheid.

Il potere politico degli Haredim e degli Haredi-nazionalisti darebbe loro la possibilità di promuovere le componenti ebraiche a spese delle componenti democratiche di Israele, di minare i diritti civili, di ignorare le lotte delle minoranze, delle persone Lgbtq e delle donne, e di indebolire il principio di uguaglianza attraverso la legislazione, i programmi di studio nel sistema educativo e sulla pubblica piazza (esclusione delle donne, per esempio). Il governo dei sogni di destra che Netanyahu sta commercializzando ai suoi elettori sarebbe l’incubo di ogni liberale, sia esso laico, tradizionale o religioso, e di chiunque non sia un estremista nazionalista che crede nella supremazia ebraica. Un tale governo sarebbe un vero inferno per gli arabi, i richiedenti asilo e la comunità Lgbtq. Non deve succedere”.

Un governo da incubo

L’ultimo compagno di viaggio è Rogel Alpher, tra i più autorevoli analisti politici israeliani. Il suo è uno sfogo che dà conto del sentimento prevalente nell’Israele laico, progressista: il disgusto. “Negli ultimi giorni – scrive Alpher – ho sofferto di nausea elettorale. Un senso fisico di disgusto. Forse non è disgusto. Forse è paura. La paura che ancora una volta, ciò che è stato, è ciò che sarà. Senza un cambio di governo per mezzo di un’elezione, la democrazia perde la sua anima. Quando una sola persona viene eletta una volta dopo l’altra, per anni e anni, in campagne elettorali che si susseguono insolitamente vicine l’una all’altra, il processo democratico si svuota di significato. Rimane un guscio vuoto e decadente.

Leggi anche:  Gaza, il software di riconoscimento facciale usato da Israele confondeva civili con i miliziani di Hamas

Invece di servire come “una celebrazione della democrazia”, le ripetute elezioni stanno solo indebolendo gli elettori che si oppongono allo status quo, che aspirano al cambiamento. Sprofondano nella stanchezza, nella disperazione, nell’impotenza. Sono sopraffatti dall’indifferenza. Le elezioni sono diventate un processo in cui l’opinione pubblica conferma la continuazione del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Un promemoria: Anche in Siria e in Russia ci sono le elezioni. In questa fase, spodestare Netanyahu non è un mezzo per raggiungere qualcosa (la fine dell’occupazione, la socialdemocrazia e così via), ma il fine in sé e per sé. L’unico obiettivo politico per il quale è essenziale lottare.

Non so cosa succederà dopo l’estromissione di Netanyahu. Per essere onesti, è difficile anche solo immaginarlo: la vita sotto un primo ministro diverso. Io credo – e questa è sicuramente una questione di convinzione – che la sua estromissione gioverebbe a Israele. Credo che libererebbe qui forze buone, creative, ottimiste, che sono state represse per un decennio. Credo che costituisca un’ampia emancipazione, una liberazione generale. Netanyahu è un tiranno. Il suo governo è autocratico. La sua caduta sarebbe uno spettacolo salutare. Farebbe rivivere la memoria della democrazia. Aprirebbe un grande ingorgo. I Bibi-isti si sentirebbero orfani, ma ne beneficerebbero anche loro. Il culto della personalità è malato. È un veleno che sta uccidendo l’anima degli israeliani. “Chiunque ma non Bibi” – proprio come “Chiunque ma non Putin” in Russia o “Chiunque ma non Erdogan” in Turchia – è l’unica opinione politica che vale qualcosa in queste elezioni. E che potrebbe tracciare un percorso verso un futuro più sano.

È l’unica posizione politica che attesta la comprensione di ciò che sta accadendo qui, del modo in cui Netanyahu sta alterando il sistema di governo di Israele e lo sta subordinando alle sue esigenze personali. Fino al 2015 circa la tirannia del primo ministro non era il problema principale: il problema principale era che Israele stava diventando uno stato di apartheid binazionale. Quel processo ha avuto luogo e si è realizzato, quasi inavvertitamente, in modo tragicamente accidentale, sotto il naso della sinistra sionista e in collaborazione con parti di essa. È sfuggito. Ora la dittatura sta scivolando. Chiunque voti martedì per Meretz, Kahol Lavan, persino per i laburisti, rischia che il suo voto finisca nel cestino. Quando sarete dietro la tenda della cabina elettorale, sappiate che non è il momento di flirtare con la soglia elettorale (un minimo del 3,25% dei voti, per assicurare la partecipazione di un partito alla Knesset).

La dittatura di Netanyahu è quello che succede quando si è impegnati a votare secondo il metodo del “almeno”: Almeno ci sarà un partito che dice “occupazione”, o almeno ci sarà un partito guidato da una donna. Questo è un metodo per accontentarsi di meno, il metodo della piccola vittoria etico-morale. “Almeno sono contento di aver portato X alla Knesset”.

Leggi anche:  Gaza, i negoziati tra Israele e Hamas proseguono: l'accordo non è fallito

Questa volta votate con il metodo che è destinato a rendere il più facile possibile per i leader del campo che sposa il cambiamento fermare la marcia della follia verso la dittatura. Gideon Sa’ar di Nuova Speranza, Yair Lapid di Yesh Atid, Avigdor Lieberman di Yisrael Beiteinu – queste sono le opzioni. Lapid mi ha chiamato “piccola merda” circa 20 anni fa (non gli piacciono le critiche). Ma voterò per Lapid, la grande merda. Volevo votare per un’altra merda, Sa’ar, ma secondo i sondaggi dell’opinione popolare, è diventato una merda troppo piccola. Se devo votare per una merda, che sia grande”.

Il viaggio finisce qui. E giunto al capolinea, è opportuno provare a tirare le somme. Guardando oltre il voto di domani. Esiste una questione che va ben al di là della pace, dell’eterno conflitto con i palestinesi. E’ la “Questione israeliana”. Che non può essere analizzata solo come riflesso della “Questione palestinese”. Su Reset  questa problematica l’abbiamo posta da tempo. E da veri amici d’Israele, tali sono quelli che non avallano ogni scelta compiuta a Tel Aviv, abbiamo guardato con inquietudine all’affermarsi di una etnocrazia, vale a dire di una deriva etnico-identitaria del sistema democratico, che pone al centro l’essere ebreo all’essere israeliano, tralasciando, peraltro, il fatto che cittadini di Israele sono anche l’1,2 milioni di arabi israeliani (oltre il 20% della popolazione complessiva). L’etnocrazia è, in primo luogo, la sanzione della sconfitta del sionismo e il trionfo del revisionismo di Zeev Jabotinsky, non a caso il punto di riferimento ideologico della destra nazionalista israeliana E’ di questo che dovremmo discutere, è su questo snodo cruciale che vale la pena, se è il caso, dividerci. La “Questione israeliana” ingloba ma non si esaurisce nella vicenda palestinese e né può avere come unica chiave di lettura quella della sicurezza minacciata. Certo, quando il gioco si fa duro, i falchi etnocratici tirano fuori il loro evergreen: siamo un Paese circondato da nemici, gli arabi possono permettersi di perdere mille battaglie ma resteranno sempre in piedi. Israele, no. Se perde una guerra, rischia di scomparire dalla faccia della terra. Ma ridurre i processi che negli ultimi cinquant’anni hanno trasformato profondamente, radicalmente Israele, al solo dilemma pace/guerra, si sminuisce la portata di una “questione” che rimarrà in vita, ne sono convinto, anche il giorno in cui la “questione palestinese” avrà finalmente una soluzione politica. Se oggi il futuro d’Israele si gioca solo a destra, non è perché c’è l’Iran, Hamas, Hezbollah. O, quanto meno, non è solo perché la destra vince se impone in cima all’agenda politica nazionale il tema della sicurezza e di come far fronte alle minacce, vere o presunte, che sono sempre, in questa narrazione, mortali. Prima che nelle urne, la vittoria della destra etnocratica in Israele, è avvenuta sul piano culturale, sull’aver plasmato la psicologia di una Nazione a propria immagine e somiglianza. La destra ha vinto perché ha fatto prevalere, nella coscienza collettiva, Eretz Israel, la Terra d’Israele, su Medinat Israel, lo Stato d’Israele. In questa visione, la Sacra Terra, proprio perché è tale, non è materia negoziabile e chi osa farlo finisce per essere un traditore che merita la morte. Questo, un traditore sacrilego, è stato Yitzhak Rabin per la destra israeliana che ha armato ideologicamente la mano del giovane zelota, Ygal Amir, che mise fine alla vita del premier-generale che aveva osato stringere la mano al “capo dei criminali palestinesi”, Yasser Arafat, riconoscendo nel nemico di una vita, un interlocutore di pace. Israele ha ottenuto successi straordinari in svariati campi dell’agire umano. E’ all’avanguardia mondiale quanto a start up, ha insegnato al mondo come rendere feconda anche la terra desertica e portato a compimento importanti scoperte nel campo della scienza, della medicina, dell’innovazione scientifica. Ma la modernizzazione sociale ed economica non ha mai interagito con la grande questione identitaria. Su questo terreno, la tradizione ha vinto e non ha fatto prigionieri.

Leggi anche:  Israele ancora ancora Guterres: "Con lui l'Onu è diventato antisemita e incoraggia il terrorismo"

L’etnocrazia, a ben vedere, è l’altra faccia del regime di apartheid instaurato di fatto nei Territori palestinesi occupati. L’etnocrazia crea identità, definisce una visione del ruolo del popolo ebraico nel mondo, indica una Missione da compiere. Rifletteva in proposito Zeev Sternhell, il più grande storico israeliano, recentemente scomparso: “Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa. da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele”.

 Il 1967 come svolta, un passaggio epocale, segnato dalla predominanza, politico-ideologica, della Nazione (ebraica) sullo Stato. E’ bene riconoscere che questa “metamorfosi” si è compiuta. E che l’Israele che va per la quarta volta alle urne in due anni, non si sente rappresentato, se non in una minima, anche se eroica, sua parte, dagli scrittori più conosciuti e amati in Europa: Abraham Bet Yehoshua, il compianto Amos Oz, David Grossman…Israele è orgoglioso di essere l”unica democrazia in Medio Oriente”. E’ vero. Ma è solo una parte di verità. Quella più presentabile. L’altra, quella preponderante ma molto meno accattivante fuori dai confini d’Israele, si fonda sull’appartenenza etnica, sull’affermazione di una diversità che crea gerarchia, che al massimo può contemplare la tolleranza ma mai una piena inclusione. La “Questione israeliana” non ha nulla di difensivo. Essa, a ben vedere, è una declinazione di quel sovranismo nazionalista che segna il presente, ipotecando il futuro. I padri fondatori d’Israele si sono battuti per realizzare il sogno di uno Stato per gli ebrei. La destra revisionista ha imposto lo Stato degli ebrei. Non è una differenza semantica. E’ il segno della sconfitta del sionismo. E dell’assoluta marginalità del campo di sinistra.

 

Native

Articoli correlati