Così in Medio Oriente Biden inaugura la "diplomazia delle armi"
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Così in Medio Oriente Biden inaugura la "diplomazia delle armi"

Il primo attacco americano da quando si è insediato il presidente democratico ha colpito una struttura legata ad una milizia filo-iraniana in Siria.

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

26 Febbraio 2021 - 16.24


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Siria, Biden va all’attacco. Il disimpegno di Trump è archiviato. L’America torna in Medio Oriente e lo fa con la “diplomazia delle armi”. Il primo attacco americano da quando si è insediato Joe Biden ha colpito una struttura legata ad una milizia filo-iraniana in Siria. Dopo tre separati attacchi missilistici contro le forze americane in Iraq, lo strike ordinato dal presidente era volto a danneggiare la capacità della milizia di condurre altri attacchi in futuro, riferiscono i media Usa citando fonti del Pentagono.

Secondo l’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo almeno 22 combattenti sono stati uccisi. “Gli attacchi hanno distrutto tre camion di munizioni in movimento dall’Iraq attraverso un’area nei pressi del valico di al-Qaim, nella provincia siriana di Deir Ezzor, ci sono molti morti. Secondo un primo bilancio sono rimasti uccisi almeno 22 combattenti appartenenti ai gruppi Kaitaib Hezbollah e Hashd al-Shaabi“, ha detto il direttore dell’Osservatorio, Rami Abdel Rahmani. 

Messaggio plurimo

Secondo il portavoce del Pentagono John Kirby l’attacco “manda un messaggio inequivocabile. Il presidente Joe Biden agirà per proteggere il personale americano e della coalizione. Allo stesso tempo abbiamo agito in modo deliberato per la de-escalation della situazione complessiva sia nella Siria orientale che in Iraq.  Le operazioni delle ultime ore sono per il Pentagono una “risposta militare proporzionata”, decisa dopo consultazioni con gli alleati della coalizione. Washington aveva condannato l’attacco dello scorso 15 febbraio contro la base statunitense nella regione del Kurdistan iracheno, ma senza accusare nessuno e affidandosi all’Iraq per l’inchiesta. “Aspettiamo che l’indagine venga completata – dichiarò Kirby – e allora avremo più dire, e lo faremo”. Lo scorso 15 febbraio i missili erano stati lanciati da un’area a sud di Erbil, vicino al confine con la provincia di Kirkuk. L’attacco è stato rivendicato da un gruppo sciita che si fa chiamare Awliyaa al-Dam, o Guardiani del Sangue. L’Iran nega di avere legami con queste milizie. Poi la scorsa settimana un missile è stato lanciato nella Zona Verde di Baghdad, che ospita le ambasciate, compresa quella americana. Non ci sono state vittime. La Casa Bianca non ha accusato alcun gruppo specifico ma ha fatto sapere di ritenere l’Iran responsabile delle azioni dei suoi ‘delegati’. Molti di questi attacchi, “sono stati portati avanti con armi prodotte o fornite dall’Iran”, le ha fatto eco il portavoce del dipartimento di Stato, Ned Price. Teheran sta facendo pressioni su Washington affinché ritorni nell’intesa sul nucleare iraniano del 2015. Biden ha aperto al negoziato. La strada appare in salita.

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Mosca irritata

L’affondo di Biden non piace neanche un po’ allo “Zar” russo, al secolo Vladimir Putin, il grande sponsor del presidente siriano Bashar al-Assad. Il Cremlino ha annunciato che sta monitorando da vicino la situazione in Siria dopo gli attacchi aerei degli Stati Uniti e che è  in costante contatto con le autorità siriane. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha rivelato che gli Stati Uniti hanno dato alla Russia alcuni minuti di preavviso prima di effettuare l’attacco, un lasso di tempo che ha descritto come inadeguato, ha riferito l’agenzia di stampa RIA. Lavrov ha anche invitato gli Stati Uniti a rinnovare i contatti con Mosca sulla Siria per chiarire la posizione del presidente Biden sul martoriato Paese mediorientale,  ha riferito l’agenzia di stampa Interfax. Sempre il ministero degli Esteri russo ha condannato  “fortemente tali azioni”. La portavoce del ministero Maria Zakharova ha aggiunto: “Chiediamo il rispetto incondizionato della sovranità e dell’integrità territoriale della Siria”. 

Ore dopo gli attacchi aerei, i ministri degli Esteri iraniano e siriano hanno parlato sottolineando “la necessità dell’Occidente di aderire alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite riguardanti la Siria”, ha detto il sito web governativo iraniano Dolat.ir.

Il raid aereo americano sembra comunque essere una mossa circoscritta, per ridurre appunto il rischio di una escalation. Inoltre la decisione di bombardare in Siria e non in Iraq concede al governo di Baghdad un pò di respiro mentre conduce le indagini sugli attacchi che hanno ferito soldati americani.

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Gli analisti diplomatici concordano nel rimarcare i toni non “muscolari” utilizzati dai due ministri, segno della volontà, soprattutto iraniana, di non rompere i ponti di dialogo apertisi con la nuova amministrazione statunitense, ponti che Trump aveva minato e distrutto. 

Il fronte saudita

Biden ha parlato oggi per la prima volta con il re saudita Salman, discutendo delle relazioni bilaterali, della sicurezza regionale, degli sforzi per concludere la guerra in Yemen e dell’impegno Usa a difendere Riad dagli attacchi di gruppi filo iraniani.   Il presidente ha “notato positivamente” anche il recente rilascio di diversi attivisti sauditi-americani e della militante per i diritti umani Loujain al-Hathloul, affermando “l’importanza che gli Usa riservano ai diritti umani e al ruolo della legge”. Lo rende noto la Casa Bianca.

Una dottrina ben organizzata

Biden ha una dottrina ben organizzata sulla necessità di promuovere i diritti umani in Medio Oriente, ma sa che comporterebbe uno sforzo pericoloso che includerebbe un palese intervento nelle politiche interne di paesi come l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – così come Israele. Ha espresso la sua posizione sull’Arabia Saudita in molte occasioni, in particolare la sua opinione sul principe ereditario Mohammed, e ha definito Erdogan della Turchia un autocrate. Ma imporrebbe sanzioni all’Arabia Saudita per la guerra in Yemen o per le gravi violazioni dei diritti umani da parte di Riyadh? Boicotterebbe Erdogan? Tutto questo si aggiunge alla questione nucleare iraniana, che non riguarda solo il ripristino dello status quo ante e l’arresto dello sviluppo nucleare iraniano, ma anche l’immagine degli Stati Uniti come paese che detta la politica globale. La questione iraniana è il test più importante per Biden, perché ha anche ramificazioni di vasta portata di altro tipo: sulle relazioni USA-UE, che hanno raggiunto il punto più basso dopo il ritiro degli Stati Uniti dal patto; sul rapporto dell’America con i paesi arabi come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti; sulla posizione dell’Iran in Medio Oriente e nel mondo in generale; e sul rapporto di Washington con Israele. Questo non è solo un altro ‘accordo’ che può o non può andare in porto.  La posizione internazionale dell’America sarà determinata dall’Iran. Tutto questo solleva anche la questione se Biden stia cercando di riparare il mondo o se verrà risucchiato nel vortice che Trump gli ha lasciato in eredità e cercherà semplicemente di riparare alcune parti difettose. In altre parole, Biden avrà una dottrina o solo un’officina che fa riparazioni su strada?”.

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La partita della ricostruzione

Secondo Haaretz, né l’Iran né Assad sono entusiasti di una ricostruzione affidata a potenze straniere con più denaro e know-how tecnico di loro. Inoltre, l’apertura ad altri attori esterni (soprattutto occidentali) richiederebbe maggiore trasparenza, responsabilità e una forte repressione della corruzione. Non solo: la ricostruzione necessita del rimpatrio di molti, se non della maggior parte dei rifugiati, ma Assad – sempre secondo Haaretz – non ha interesse a far rientrare una massa persistente di malcontento politico e futura ribellione.

Quanto alla Russia, il giornale israeliano sottolinea che Mosca si trova nella scomoda situazione di dover rientrare dagli investimenti fatti finora, senza però avere la capacità per finanziare la ricostruzione. Gli Stati Uniti e l’Europa non sono interessati a partecipare senza vedere prima vere e reali riforme politiche.

La Cina è solita investire in paesi ad alto rischio, ma secondo Haaretz alle società cinesi non piace competere nei luoghi dove Russia e Iran hanno così tanta influenza politica. In attesa del boom di ricostruzione, Russia e Iran si stanno già spartendo gli unici asset a disposizione: Mosca, in particolare, ha battuto Teheran per ottenere il controllo di almeno una parte dell’industria dei fosfati in Siria. 

Il dopoguerra è iniziato. Le vecchie alleanze saltano e se ne definiscono le nuove. Con una costante: l’Europa è fuori gioco. Ma non l’America targata Biden. 

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