Levy: "Israele, la tua democrazia è durata sei mesi. Dopo, siamo diventati il Paese dell'apartheid".
Top

Levy: "Israele, la tua democrazia è durata sei mesi. Dopo, siamo diventati il Paese dell'apartheid".

Gideon Levy firma storica di Haaretz. Controcorrente da una vita, indipendente per “vocazione”, Levy non ha mai fatto sconti a nessuno. E non si è mai accontentato di “verità” superficiali

Il muro di Israele con la Palestina
Il muro di Israele con la Palestina
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

18 Gennaio 2021 - 15.08


ATF

E’ una riflessione “esplosiva”. Una rivisitazione storica destinata a scatenare polemiche e attacchi. Ma lui, agli attacchi c’è abituato, come alle minacce di morte ricevute, a decine, dall’estrema destra israeliana. Non è un caso che Gideon Levy sia l’icona vivente del giornalismo radical israeliano, firma storica di Haaretz. Controcorrente da una vita, indipendente per “vocazione”, Levy non ha mai fatto sconti a nessuno. E non si è mai accontentato di “verità” superficiali, di scorciatoie consolatorie, di facili bersagli. Questa analisi ne è una conferma.

Il j’accuse di Levy

“Per soli sei mesi dei suoi 73 anni –  scrive Levy – Israele è stata una democrazia. Sei mesi, e non un giorno di più. Questo fatto scioccante, che la maggior parte degli israeliani e del mondo intero reprime e cerca la verità, non ha modo di negare, deve risuonare in ogni lezione civica e in ogni dibattito in Israele. Tutte le sciocchezze su ‘Bibi sta distruggendo la democrazia’ ignorano questo fatto ‘eterno’: solo per sei mesi lo Stato ha trattato tutti i cittadini sotto il suo governo in modo democratico, almeno per il bene delle apparenze. In tutti i suoi decenni di esistenza, Israele ha trattato in modo tirannico parte dei suoi cittadini. Ecco perché non ha alcun legame con la democrazia. Il 21 ottobre 1948, Israele ha messo i suoi cittadini arabi sotto un governo militare. Il 1° dicembre 1966, il primo ministro Levi Eshkol ha sollevato questa vergogna. Sei mesi dopo, nel giugno 1967, la tirannia militare tornò a definire Israele quando i suoi territori appena occupati furono posti sotto il governo militare. Questa situazione è continuata fino ad oggi e la sua fine non è in vista da nessuna parte. Tutto ciò che rimane è il costume. Ora, anche quello comincia ad essere strappato; un lungo processo. Le radici della menzogna della democrazia sono profonde.  B’Tselem, il gruppo per i diritti umani, ha pubblicato la scorsa settimana un documento di portata rivoluzionaria, attraversando il Rubicone dicendo che il regime di supremazia ebraica non esiste solo nei territori occupati, dove B’Tselem documenta i crimini fin dalla fondazione del gruppo, ma in tutto il territorio dal Mar Mediterraneo al fiume Giordano. Pochi giorni prima, lo scrittore americano Nathan Thrall, che vive a Gerusalemme, aveva pubblicato un pezzo che apre gli occhi e amplia la mente sul London Review of Books intitolato The Separate Regimes Delusion. Thrall non esita a criticare le presunte organizzazioni liberali sioniste e di sinistra, da Meretz e Peace Now a Yesh Din e Haaretz. Tutti loro credono che Israele sia una democrazia e si oppongono all’annessione perché potrebbe minare la loro falsa convinzione che l’occupazione stia avvenendo altrove, al di fuori di Israele, ed è solo temporanea. La separazione tra l’occupazione e Israele è ancora valida ai loro occhi, quindi stanno portando la gente fuori strada. La conclusione dei due documenti è la stessa: è impossibile parlare di ‘apartheid nei territori’. È impossibile separare i territori e Israele, ed è impossibile considerare l’occupazione temporanea. La conclusione: Israele è uno Stato dell’apartheid. Proprio come in Sudafrica era ridicolo parlare di democrazia, anche se si sono svolte le elezioni, è ridicolo vedere Israele come una democrazia. Se una parte di esso è tirannia, tutto è tirannia. È impossibile sostenere che nei territori occupati esistono due sistemi di diritti e leggi basati sulla separazione delle nazionalità. Nessun fatto è più certo. Anche la temporaneità dell’occupazione è un argomento superato. Per questo dobbiamo smettere di cercare di terrorizzare la gente e sostenere che la destra ci sta portando all’apartheid. L’apartheid è qui dal 1948. Solo allora potremo riconoscere che l’occupazione definisce il regime israeliano, non l’Alta Corte di Giustizia, non le elezioni e non le libertà per gli ebrei, e anche un po’ per i cittadini non ebrei. La supremazia ebraica è in tutto, come dice B’Tselem. E’ impossibile separare il ‘buon’  Israele e la ‘cattiva’ occupazione, come afferma Thrall. Imparate a conoscerlo: l’apartheid. Uno stato di apartheid. Ci viviamo dentro, ne facciamo parte, ne siamo partecipi. È il nostro Paese”.

Leggi anche:  Palestinese della Jihad islamica accusato di aiutare Israele giustiziato in pubblico dal fratello

La “profezia” di Sternhell

Le riflessioni di Levy mi portano a recuperare una intervista che il più grande storico israeliano, recentemente scomparso, Zeev Sternhell concesse a l’Unità nel maggio del 2014. D’allora sono passati 4 anni e 8 mesi. Ma sembra oggi.

Professor Sternhell, i negoziati di pace israelo-palestinesi sono di nuovo a uno stallo, in un rimpallo di responsabilità tra le due parti. Visto da un intellettuale come lei, da sempre impegnato nel dialogo, qual è il segno di questa ennesima battuta d’arresto?
Il segno dei tempi, il segno di un arretramento culturale prim’ancora che politico che non riguarda solo l’attuale classe politica, invero alquanto modesta, del mio Paese. Ciò che mi preoccupa di più è l’idea di “pace” che oggi permea trasversalmente Israele, una idea diventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana. E’ qualcosa di più e di più grave di una idea di pace a costo zero. E’ la convinzione che l’unica pace accettabile è la resa incondizionata dei palestinesi. Vede, se si chiede a un cittadino medio israeliano se è per la pace o per la guerra, le risponderà pronto che lui vuole la pace. Ma la “psicologia di una nazione” emerge quando si scava nell’idea di pace. E’ qui che si nasconde l’arretramento”.
Qual è la “pace” giusta per lei?
‘E’ quella che non può fare a meno di un concetto fondamentale: la giustizia. Una pace senza giustizia è un esercizio retorico destinato a un misero fallimento. Ma la giustizia, in questo caso, è tale se riconosce e rispetta i diritti di tutti e non solo di chi esercita il monopolio della forza. Vede, nel mio Paese chi si considera di sinistra evoca spesso la necessità di battersi per la giustizia sociale. Ma come è possibile realizzare la giustizia sociale senza definire la giustizia come un valore universale? Quali sono i confini della giustizia e della sua attuazione? Questo ci riporta all’ occupazione. La giustizia non è solo il diritto a un alloggio decente per gli ebrei, è anche il diritto alla libertà per un popolo che vive sotto occupazione. Prima che in politica, la sinistra ha perso la sua battaglia nel campo della cultura, del confronto di visioni. A 68 anni dalla nascita d’Israele, ad affermarsi sembra essere il revisionismo sionista di Jabotinsky, quello che affida a Israele una sorta di ruolo “messianico”, da popolo eletto; una idea per cui a essere centrate è “Eretz Israel”, la sacra Terra d’Israele piuttosto che “Medinat Israel”, lo Stato d’Israele. In questa visione lo Stato non esiste per garantire la democrazia, l’uguaglianza, i diritti umani o anche una vita dignitosa a tutti; esiste per garantire il dominio ebraico sulla Terra di Israele e per assicurarsi che nessuna entità politica supplementare è qui stabilita. Tutto è ritenuto lecito per raggiungere tale fine, e nessun prezzo è considerato troppo elevato. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “modernità”. Inesorabilmente Israele si sta trasformando sempre più in una entità anacronistica.
C’è chi paventa il rischio che proseguendo l’occupazione dei Territori, Israele possa trasformarsi in uno “Stato di apartheid”.
Non si tratta di un rischio, è qualcosa che già si sta determinando nella realtà quotidiana, negli atti compiuti dalle autorità, e nella percezione di sé e dell’altro che ne è il tratto ideologico: l’idea per cui se il palestinese, o l’arabo israeliano, vuol essere “tollerato” deve accettare la propria inferiorità. Quello che così facendo si è creato è un “popolo di espropriati”. Espropriati non solo delle loro terre ma della loro identità, del loro essere più profondo. Purtroppo, la strada per il Sudafrica è stata pavimentata, e potrà essere smantellata solo se il mondo libero, l’Occidente, porrà Israele di fronte a un aut aut…
Quale?
Fermare l’annessione e smantellare la maggior parte delle colonie e lo stato dei coloni, o essere un emarginato”.
A proposito dello “stato dei coloni”. Fuori e dentro Israele è aperto da tempo un dibattito sul boicottaggio dei prodotti che provengono dagli insediamenti. Lei ha affermato in passato che questo boicottaggio non può essere considerato come una forma di antisemitismo. E’ ancora di questo avviso?
Assolutamente sì. Il boicottaggio è soprattutto un modo civile, non violento ma concreto, per protestare contro il colonialismo e l’apartheid prevalente nei Territori.
Una tesi condivisa da molti intellettuali israeliani.
E’ un bene che sia così. Ed è un bene per Israele, per la sua immagine nel mondo. Gli intellettuali israeliani sono i migliori ambasciatori del sionismo, ma rappresentano la società israeliana, non la realtà coloniale. Pensano che calpestare i diritti dei palestinesi in nome dei nostri diritti esclusivi per la terra, e in virtù di un decreto divino, contamina la storia ebraica di una macchia indelebile.
Lei afferma che gli intellettuali sono i “migliori ambasciatori” del sionismo. Ma c’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano.
No, non è così. Questa è una caricatura del sionismo o, comunque, ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Come le ebbi a dire in una nostra precedente conversazione, resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa. da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele.

Leggi anche:  Ue contro Israele: "La confisca delle terre occupate viola il diritto internazionale"

Gideon Levy, Zevv Sternhell: due grandi d’Israele. 

Native

Articoli correlati