Scatenare la guerra all'Iran: l'ultimo "ricorso" di Trump, il Nerone della Casa Bianca

Aprire un conflitto verso l’Iran e i suoi alleati sciiti libanesi, Hezbollah, prima del passaggio delle consegne presidenziali. Fare terra bruciata, esercitando anche nel periodo di transizione. E' l'idea-

Donald Trump
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Novembre 2020 - 15.57


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L’ultimo ricorso potrebbe essere quello più letale. Per il mondo intero. Il “ricorso” alla guerra. Ultimo atto di un uomo disperato, di un presidente sconfitto dal voto ma che non vuole sloggiare dalla Casa Bianca. E per riuscirci, Donald Trump sembra pronto a tutto. Non si tratta più della raffica di ricorsi ai tribunali dei singoli stati per ottenere il riconteggio dei voti, né sobillare la piazza e mobilitare i suoi ultras evangelici e suprematisti, tanto meno annunciare ripetutamente che lui non riconoscerà mai la vittoria dell’uomo che, a suo dire, ha “truccato” le elezioni. Tutto questo scompare di fronte allo scenario più drammatico che sta manifestandosi negli ultimi giorni: scatenare la guerra contro l’Iran e i suoi alleati sciiti libanesi, Hezbollah, prima del passaggio delle consegne presidenziali. Fare terra bruciata, esercitando anche nel periodo di transizione, le prerogative di commander in chief, e come tale ordinare operazioni militari. Entro l’anno. 

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Visto da Israele

Amos Harel è, giustamente, considerato il più autorevole analista israeliano di strategie militari, oltre che firma di punta di Haaretz. Così ne scrive: “Mike Pompeo visiterà il Medio Oriente, Israele compreso, la prossima settimana. Il tempismo è interessante. Cosa potrebbe cercare qui il segretario diSstato americano uscente, con la pandemia di coronavirus ancora in atto e il suo capo che si suppone abbia fatto le valigie dopo la sua perdita netta con Joe Biden alle elezioni presidenziali? Uno degli ultimi lealisti del presidente Donald Trump, Pompeo, è stato colui che questa settimana ha dichiarato che Washington si sta davvero preparando per una transizione governativa il 20 gennaio prossimo – dalla prima amministrazione Trump alla seconda amministrazione Trump. Questa è l’incrollabile lealtà che ha garantito la sopravvivenza di Pompeo come segretario di Stato, in un periodo in cui il presidente si è rapidamente stufato della maggior parte dei suoi alti funzionari. Proprio questa settimana, Trump ha completato un’altra notte dei lunghi coltelli al Pentagono e ha scaricato, come previsto, alcuni funzionari, in particolare il segretario della difesa, Mark Esper. Il presidente non ha mai perdonato Esper per la sua opposizione a mandare l’esercito nelle strade l’estate scorsa per colpire i manifestanti contro di lui. Alcune delle nuove nomine provengono dalle frange folli della destra americana, da regni dove le teorie cospirazioniste sono la norma. Israele potrebbe lanciare attacchi militari preventivi contro l’Iran dopo che il presidente Donald Trump terminerà il suo mandato, ha indicato l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump H.R. McMaster. Uno spirito maligno aleggia sulla capitale americana in questi giorni. Insieme alle epurazioni ai vertici, Trump e i suoi consiglieri sono impegnati a gestire una battaglia di autodifesa legale con l’obiettivo di ribaltare il risultato delle elezioni, o almeno di sconvolgere l’ingresso di Biden alla Casa Bianca. Nonostante le urla forsennate dei fanatici di Trump negli Stati Uniti e dei suoi cloni in Israele, la stragrande maggioranza degli esperti americani ritiene che il presidente non abbia un caso legale per dimostrare la frode sistematica degli elettori. La questione è se Trump, che non ha mai avuto intenzione di concedere l’elezione, sia immerso solo nell’elaborazione del suo lutto e i suoi consiglieri scorrano con lui, o se ci sia un complotto in atto, disperato e senza speranza, per ostacolare il passaggio di potere. La spiegazione più probabile è che Trump, come l’affittuario di un appartamento che si è rivelato un insopportabile ronzino, stia effettivamente negoziando i termini della sua partenza. Se riuscirà a mantenere nel tempo l’idea, sostenuta da alcuni dei suoi elettori, che le elezioni gli siano state rubate, consoliderà il suo status nel Partito Repubblicano, forse lancerà una nuova rete televisiva di destra, “Trump TV”, e si posizionerà per le elezioni del 2024. Il New York Times, citando fonti autorevoli del Pentagono, ha riferito questa settimana che la preoccupazione è che Trump stia pianificando un ultimo drammatico atto prima di andarsene: un attacco militare in Iran o in Venezuela. Il Gen. H.R. McMaster, uno dei quattro consiglieri per la sicurezza nazionale che Trump ha passato, ha detto a Fox News mercoledì che c’è la possibilità che Israele attacchi gli impianti nucleari iraniani prima che Trump lasci l’incarico. In ogni anno tra il 2009 e il 2013, come è stato riportato superficialmente all’epoca e più dettagliatamente in seguito, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha preso in considerazione la possibilità di lanciare un massiccio attacco aereo contro l’Iran. In un’occasione, è scoppiata una discussione tra Netanyahu e il suo ministro della difesa, Ehud Barak, e, dall’altra parte, il capo del Mossad Meir Dagan. Quest’ultimo si è opposto a “spremere la molla”, la direttiva di preparare un attacco nel giro di poche settimane.

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Gli esperti americani ritenevano allora che la possibile tempistica di un attacco sarebbe dipesa dalla “finestra meteorologica”, riferendosi alle condizioni delle nubi che prevalgono sull’Iran in inverno e che ostacolano un attacco in quella stagione. Nell’era di Trump, sullo sfondo del ritiro degli Stati Uniti dall’accordo nucleare con l’Iran, la questione del bombardamento del Paese non si è posta direttamente fino ad oggi. Si sono però verificati una serie di incidenti che hanno imposto l’uso di una forza più limitata: il furto dell’archivio nucleare iraniano da parte del Mossad (rivelato nel maggio 2018), l’assassinio del gen. Qasem Soleimani da parte degli Stati Uniti (gennaio scorso) e una misteriosa esplosione, di cui nessuno ha rivendicato la responsabilità, in un impianto di arricchimento dell’uranio a Natanz (luglio scorso). Il capo di Pompeo, il “rappresentante speciale per l’Iran e il Venezuela” del Dipartimento di Stato, Elliott Abrams, ha visitato Israele questa settimana. Interrogato su un possibile attacco militare israeliano, Abrams ha ripetuto un aneddoto del 2007, durante l’amministrazione di George W. Bush. Il primo ministro Ehud Olmert voleva reclutare gli americani per una mossa congiunta per attaccare l’impianto nucleare che la Corea del Nord aveva costruito in Siria. “Bush ha risposto che l’America non è un poliziotto del traffico”, ha osservato Abrams. “Non ci occupiamo di semafori verdi o rossi”.

Abrams ha detto che la sua visita aveva lo scopo di coordinare l’affilamento del piano di sanzioni, “massima pressione”, contro l’Iran. Sullo sfondo c’è l’intenzione dell’amministrazione Biden di rinnovare i negoziati sull’accordo nucleare dopo il suo insediamento o, più probabilmente, dopo le elezioni presidenziali iraniane del prossimo giugno. Trump è il presidente degli Stati Uniti meno prevedibile di sempre. C’è una certa spigolosità in Israele nel tentativo di cogliere le sue intenzioni riguardo all’Iran durante il periodo di transizione. Se Trump sta condividendo i suoi pensieri con Netanyahu, il primo ministro finora non sta aggiornando l’establishment della difesa. Sembra irragionevole, in queste circostanze, che Netanyahu cerchi di imporre ai suoi alleati della coalizione di Kahol Lavan (e all’alto comando delle Forze di difesa israeliane, che ha delle riserve) una mossa unilaterale israeliana in Iran. Ma è difficile escludere del tutto un’operazione americana, con Israele che riceve alcuni dei rimbalzi della risposta iraniana”. 

Rimbalzi devastanti.

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ll numero 52
D’altro canto, i piani di un attacco all’Iran sono pronti da tempo. Ed è stato lo stesso Trump a darne conto. E’ il 6 gennaio 2020. Tre giorni prima, un drone americano aveva condotto una “eliminazione mirata” a Baghdad. Una eliminazione pesantissima: a morire è il generale Qassem Soleimani, il potentissimo capo delle Guardie rivoluzionarie iraniane (i Pasdaran), coordinatore di tutte le azioni militari iraniane fuori dai confini nazionale, l’uomo che estendeva la sua influenza dalla Siria alla Palestina, dall’Iraq allo Yemen, dal Libano al Golfo. “Se ci attaccheranno, noi risponderemo”, scrive sui social Trump. “Abbiamo già individuato 52 bersagli, alcuni di alto livello e di grande importanza per la cultura iraniana”.  Il numero dei siti non è casuale, lo stesso Trump specifica che corrisponde a quello dei 52 ostaggi statunitensi che furono detenuti nell’ambasciata Usa a Teheran allo scoppio della rivoluzione, e per i 444 giorni successivi. È la macchia più infamante che l’orgoglio degli Stati Uniti ha dovuto sopportare dopo l’attacco di Pearl Harbor, e il livore è particolarmente sentito da un presidente che si presenta sempre come un vincitore.

Il capo della Casa Bianca non ha rivelato nel dettaglio – come è ovvio -quali sarebbero questi 52 obiettivi nel mirino. È facile immaginare che nell’elenco ci siano strutture del programma nucleare iraniano, tanto più ora che Teheran ha annunciato la ripresa dell’arricchimento dell’uranio. Del resto i precedenti non mancano, come l’attacco informatico Stuxnet, il virus (di cui si venne a sapere nel 2010) con cui americani e israeliani infettarono le centrali nucleari in Iran. Le forze armate israeliane negli ultimi anni si sono dotate di un’apposita task force creata proprio per studiare i possibili interventi contro le strutture atomiche degli ayatollah.

Ha sorpreso molto il riferimento fatto da Trump ai siti di rilevanza culturale come possibile obiettivo militare. La minaccia sconfina oltre i limiti della legalità internazionale. Colpire i luoghi dell’identità culturale di un Paese è un atto bollato come un crimine di guerra dalla convenzione dell’Aia del 1954, e poi da una risoluzione Onu del 2001, dopo che i talebani nella loro follia censoria avevano abbattuto le gigantesche statue rupestri di Budda in Afghanistan. Se le parole di Trump dovessero corrispondere ad un piano realmente discusso dai vertici militari del Pentagono, l’impatto dell’azione promessa sarebbe devastante. L’Unesco ha inserito ventiquattro siti iraniani nella sua lista dei luoghi da proteggere e da salvare in quanto patrimonio dell’umanità. Tra i luoghi più cari all’identità nazionale ci sono gemme come la moschea di Isfahan costruita nel 518 avanti Cristo, al Palazzo Golestan del XVII secolo al centro di Teheran, dove l’ultimo dei membri della casa imperiale, Reza Palavi, fu incoronato nel 1941. La città sacra è Qom, il centro per eccellenza della scolarità sciita, che forma i leader del regime. Nella capitale c’è anche una Torre della libertà che serve da punto di raccolta per le abituali proteste al grido: “Morte all’America”, e il mausoleo dell’ayatollah Khomeini, padre del regime islamico al potere.

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Quei piani sono rimasti nel cassetto. Fino ad oggi. Ora, però, lo “Stranamore” della Casa Bianca potrebbe ritirarli fuori. Magari coinvolgendo nell’ultimo “ricorso” il suo gande amico e sodale israeliano: Benjamin Netanyahu.

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