Libia, quando il direttore di Repubblica scopre l'acqua calda

Maurizio Molinari ora che Trump ha perso le elezioni ha scoperto che Putin si potrebbe rafforzare in Libia e in Africa. Ma va?

Il generale Haftar in visita in Russia
Il generale Haftar in visita in Russia
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

15 Novembre 2020 - 20.46


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A Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, va riconosciuto di essere un appassionato di politica estera, cosa alquanto rara nel provinciale panorama della comunicazione e dell’informazione nostrane. Ha fatto il corrisponde diplomatico presso la Farnesina, poi negli Usa è stato corrispondente de La Stampa e infine in Israele.

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Ha scritto libri, e non ha mai nascosto, gliene va dato atto, quali siano i capisaldi del suo pensiero in materia di geopolitica: un marcato filoatlantismo, un sostegno senza se e senza ma a Israele, e una diffidenza strutturata verso l’islam politico, declinato in ogni sua sfaccettatura.

Ora che la presidenza Trump si avvia ad un turbolento ma liberatorio tramonto, Molinari lancia un grido d’allarme indirizzato oltre Oceano piuttosto che alla vicina Farnesina, dove è di stanza un improbabile ministro degli Esteri. “Se Putin prende la Libia”. E’ il titolo del suo editoriale. Con il sommario che recita: con l’America distratta dalle elezioni e l’Europa a difendersi dal virus, la Russia dispiega ingenti forze in Cirenaica. Sotto gli occhi di Italia e Francia”.

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La scoperta dell’acqua calda

“Il protagonista nel Mediterraneo – scrive il direttore – è Vladimir Putin che con una serie di mosse, abili e silenziose, sta mettendo in atto un piano per ipotecare il controllo della Libia e rafforzare la proiezione in Africa”.

Ce n’è voluto del tempo per accorgersene. E’ dalla “pax siriana” che “Zar Vladimir” è il player centrale della partita che si sta giocando nel Grande Medio Oriente. E lo è diventato con mosse certamente abili ma che siano state “silenziose”, beh questo è un azzardo semantico. Perché le bombe sganciate a tonnellate in Siria dai caccia russi hanno contribuito a tenere a galla, e in vita, il “macellaio di Damasco”, al secolo Bashar al-Assad, rais siriano nelle mani di Putin e dei pasdaran iraniani. Il rumore di quelle bombe, che hanno provocato migliaia di morti tra la popolazione civile siriana, è stato assordante, ma l’imbelle Europa e l’uomo della Casa Bianca hanno fatto finta di non sentirle, così come la disperazione di una moltitudine di disperati che da città e villaggi bombardati dai russi hanno provato a fuggire. E cosa c’è di “silenzioso”, nell’azione sul terreno dei mercenari della “Wagner”, agenzia privata di collocamento di miliziani il cui padrone è un amico di Putin, che in Libia hanno supportato l’azione dell’autoproclamato esercito nazionale libico (Lna) al servizio di un altro burattino manovrato dallo “Zar”: il generale Khalifa Haftar.  

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“Se Putin si prende la Libia”. Caro Maurizio, ma Putin la Libia se l’è già presa. Semmai, dovrà spartirla con gli altri attori esterni protagonisti della guerra per procura che nei nove anni dall’eliminazione di Muammar Gheddafi, ha insanguinato il paese nordafricano. Nella “Yalta libica”, Putin siederà a capo tavola, e in prima fila ci saranno sultani, autocrati, presidenti-generali, doppiogiochisti, emiri, che si spartiranno la iper miliardaria torta petrolifera e della ricostruzione. In questa partita, l’Italia è fuori da tempo. I dilettanti allo sbaraglio capitanati da Luigi Di Maio, nonostante la provata capacità del nostro corpo diplomatico, hanno accumulato una sequela impressionante di errori che solo ad elencarli servirebbe un libro. Ma questo Molinari lo sa bene. Lui che ha agganci importanti, ed è un merito, a Washington, Tel Aviv, e in altri ambienti diplomatici, e non solo, che contano, sa bene che l’Italia oggi è game over dagli scenari internazionali più importanti, a cominciare dal Mediterraneo. Ci hanno preso le misure e valutato per quel che pesiamo: un peso piuma sul ring internazionale. E non basta fare giravolte, genuflessioni, per diventare credibili. La conferma è nel recente viaggio di Di Maio in Israele e a Ramallah. I media israeliani non l’hanno filato di pezza, i palestinesi non hanno nascosto il loro disappunto per il sostegno dato dal ministro degli Esteri italiano agli “Accordi di Abramo”, benedetti da Trump, tra Israele e Barhein, Emirati Arabi Uniti e Sudan. 

In Libia, poi, non potevamo fare di peggio. Appoggiavamo Sarraj e al tempo stesso flirtavamo con Haftar – per averne contezza basta rileggersi le cronache della Conferenza di Palermo del 12 e 13 novembre 2018, con il padrone di casa, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, costretto a rivolgersi al presidente-generale egiziano Abdel Fattah al-Sisi, perché facesse arrivare a Palermo la star della Cirenaica, ; chiedevamo all’America di concederci la “cabina di regia” internazionale sulla Libia, quando al tycoon di Washington della Libia non interessava nulla. Abbiamo provato a omaggiare l’altro player dei giochi (di guerra) del Mediterraneo, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, ricevendo in cambio solo umiliazioni, ultima in ordine di tempo lo “scippo” dell’addestramento della cosiddetta Guardia costiera libica con tanto di appropriazione delle motovedette regalate al governo di Tripoli per fare il lavoro sporco contro i migranti nel Mediterraneo. Ci considerano zero, ma noi facciamo finta di niente e bussiamo alle porte di Erdogan o degli emiratini per provare a convincere Haftar a ridarci indietro 18 pescatori che da oltre due mesi tiene in ostaggio, reclusi a Bengasi. 

Provare ad aprire gli occhi al nostro (ahinoi) ministro degli Esteri, è fatica sprecata e tempo perso. E anche questo il direttore di Repubblica lo sa benissimo. E allora? A chi è rivolto il suo allarme? Al futuro presidente degli Stati Uniti, è la nostra idea. In politica estera, l’America first di Donald Trump si è rivelata un’anatra zoppa, ondivaga, tranne nell’indefesso sostegno al governo di destra israeliano, traditrice (vedi i curdi siriani dati in pasto alle armate turche e ai tagliagole jihadisti al servizio di Erdogan), e subalterna alla Russia e al suo presidente, con il quale peraltro Trump ha sempre condiviso il disprezzo per l’Europa. L’America di Biden, si legge tra le righe degli articoli che Molinari ha dedicato alle elezioni presidenziali, dovrebbe essere più interventista nelle zone calde del pianeta, più attiva nel contrastare la penetrazione iraniana nel Medio Oriente (evidentemente le sanzioni inflitte da Trump non sembrano bastare) e nel combattere l’altro incubo del direttore di Repubblica: la Cina. 

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I nemici sono chiari. I pericoli indicati. Dallo schema resta fuori il “dettaglio” dei diritti umani. Trump non ha mai nascosto di fregarsene altamente, mostrandosi attratto dai vari Erdogan, al-Sisi, emiri del Golfo, falchi israeliani, autocrati europei, Orban in primis, o dittatori parafascisti sudamericani, come il brasiliano Bolsonaro. Con costoro come dovrebbe comportarsi il successore di Trump? Venirci a patti, combatterli, o cos’altro? Attendiamo lumi da Largo Fochetti. E magari anche qualche rigo sul giornale sull’ultima bravata di Mike Pompeo in Palestina, ma forse questo è pretendere un po’ troppo…

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