In Libia la deportazione continua. Con i soldi italiani
Top

In Libia la deportazione continua. Con i soldi italiani

La portavoce di Iom-Un Migration, Safa Msehli ha raccontato che circa 160 migranti sono stati riportati in Libia dalla Guardia costiera"

Migranti in Libia
Migranti in Libia
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Ottobre 2020 - 12.09


ATF

Libia, la deportazione continua. Come continua il finanziamento italiano alla cosiddetta Guardia costiera libica. I morti nel deserto e nel Canale di Sicilia, le torture e gli stupri nei centri di detenzione finanziati dall’Italia, le deportazioni nel Sahara, i respingimenti collettivi in mare, i rimpatri dei rifugiati sui voli pagati da Roma, le deportazioni da Lampedusa, gli omicidi nei commissariati, gli abusi dei passeurs e gli attacchi razzisti a Tripoli. Tutto quello che non si deve sapere sul paese a cui l’Italia e l’Ue affidano il controllo della frontiera sud,.

“Stanotte circa 160 migranti sono stati riportati in Libia dalla Guardia costiera”. Lo scrive su Twitter la portavoce di Iom-Un Migration, Safa Msehli aggiungendo che “nelle ultime 48 ore sono state intercettate sei imbarcazioni e 390 uomini, donne e bambini sono finiti in carcere”.  “La Libia non è un porto sicuro”, conclude Msehli, e Oim in Libia afferma che “mentre le nostre squadre sono presenti ai punti di sbarco per fornire assistenza di emergenza, ribadiamo che nessuno dovrebbe essere rimpatriato in Libia

Tra la vita e la morte

In un recente rapporto, dal titolo “Tra la vita e la morte”, Amnesty International ricostruisce, attraverso numerose fonti verificate – ivi comprese le testimonianze dirette di 32 rifugiati e migranti vissuti, in passato o attualmente, in Libia –, la lunga scia di illegalità e le gravi e ripetute violazioni di diritti umani fondamentali che caratterizzano la gestione dei migranti da parte del Governo di Accordo Nazionale (Gna) libico. Pur non avendo aderito alla  Convenzione di Ginevra  (1951), relativa allo statuto dei rifugiati, la Libia ha sottoscritto numerose altre convenzioni e trattati internazionali che la obbligano, formalmente, a riconoscere a chi di diritto lo status di rifugiato e a rispettare e tutelare i diritti umani. Nei centri di detenzione riservati ai migranti, tuttavia, questi impegni vengono puntualmente disattesi in un clima di opprimente impunità. Migranti e rifugiati che arrivano in territorio libico vengono infatti illegalmente incarcerati, privati della possibilità di una difesa legale, e consegnati alla custodia di forze di sicurezza (spesso agli ordini del governo). I luoghi di detenzione ufficiali riservati ai migranti sono undici sull’intero territorio nazionale, ma si stima che vi siano molti altri “campi” non ufficiali nei quali essi vengono deportati, uscendo così dalle statistiche ufficiali e, di fatto, scomparendo. In molti casi, queste sparizioni forzate sono veri e propri rapimenti, realizzati da gruppi armati o da trafficanti così da costringere le famiglie a pagare un riscatto per sperare di rivedere i propri cari. Secondo il report,  “nel corso del 2020, sia la LCG (Libyan Coastal Guard) che il DCIM (Libya’s Directorate for Combating Illegal Migration) sono stati coinvolti nelle sparizioni forzate di rifugiati e migranti trasferendoli in centri di detenzione non ufficiali, comprese le cosiddette “strutture di raccolta dati e di indagine” e la “Fabbrica del Tabacco” [una ex-fabbrica dismessa e usata come centro di detenzione non ufficiale, controllata da una milizia], nonché in altri luoghi non rivelati”.

I racconti dell’orrore

Come è facile immaginare, e ampiamente documentato, le condizioni di detenzione sono “orribili”: uno degli intervistati, fuggito dal proprio paese per evitare l’arruolamento forzato e vittima, in Libia, di soprusi dal 2017, racconta in questo modo il proprio arresto: “Per quindici giorni ci hanno picchiato con bastoni di ferro, ci hanno picchiato con tubi flessibili, ci hanno picchiato con tutto quello che avevano. Ci hanno chiesto di pagare 6.000 dinari libici per ciascuno, che si trattasse di un adulto o di un bambino era indifferente”. Gli arresti avvengono senza motivazione apparente anche tra i migranti che vivono stabilmente in Libia; in un’altra testimonianza riportata si legge: «Una notte, alle 3 del mattino, alcuni criminali sono entrati in casa nostra. Hanno picchiato mia moglie. Io ho reagito. Mi hanno pugnalato a una gamba e mi hanno detto: “Se ti muovi, le spariamo”. Ci hanno rapiti e portati in un hangar fuori Tripoli. Hanno chiesto un riscatto di 20.000 dollari a persona. C’erano sedici o diciassette persone nell’hangar – dalla Somalia, dall’Eritrea, dall’Etiopia. Siamo rimasti circa 15 giorni… Picchiavano la gente. Quando arrivi, ti lasciano nudo, picchiano gli uomini e violentano le donne. Dopo due settimane, ho colto l’occasione e sono scappato»”

I detenuti subiscono abusi di ogni genere: torture – pestaggi, elettroshock… –, violenze sessuali (di cui sono vittime soprattutto le donne, ma non solo), violenza razziale; inadeguata alimentazione, e spesso impossibilità di accedere ad acqua pulita; assoluta mancanza di assistenza sanitaria, aspetto che si è aggravato con la diffusione del Covid-19, a cui i migranti sono maggiormente esposti. Molti vengono sottoposti a lavori forzati, senza alcuna retribuzione né la possibilità di sottrarvisi. Molte morti che avvengono in prigionia sono dovute, oltre che alle torture e alle violenze perpetrate dalle forze armate, proprio all’inedia, alla mancanza di cure e al generale rapido deterioramento delle condizioni di salute. Molti fra gli intervistati hanno affermato di essere stati testimoni della morte di loro conoscenti o familiari durante la detenzione.

“Amnesty International continua a sostenere che, cooperando consapevolmente con la Libia in modi che portano a bloccare le persone in una situazione di estremo pericolo, gli Stati e le istituzioni dell’UE stanno agendo in violazione dei propri obblighi internazionali […]. Il continuo sostegno dell’Italia alla Libia, in particolare, è strumentale a consentire e a istigare orribili abusi da parte delle autorità libiche contro i rifugiati e i migranti al loro ritorno in Libia […]. Tale coinvolgimento, sebbene inquadrato e realizzato in modi che mirano chiaramente ad aggirare gli obblighi internazionali, non dovrebbe essere privo di conseguenze”

Le quattro opzioni

Una volta arrestati le opzioni per i migranti sono quattro. Chi ha soldi riesce a corrompere la polizia per uscire. E spesso è la stessa polizia che lo mette in contatto con dei passeur che possono riportarlo a Tripoli. Chi non ha soldi viene rimpatriato in aereo nel proprio Paese d’origine, oppure viene caricato su dei camion militari, stipati con 70-80 persone, e trasportato verso la frontiera meridionale: a Kufrah, a sud est, o a Qatrun, a sud ovest. Da lì poi, dopo altri mesi di detenzione, i camion carichi di migranti partono verso la frontiera, in pieno deserto. Chi non ha soldi viene abbandonato in mezzo alla sabbia, chi può pagare 100 o 200 dollari viene riportato indietro, clandestinamente, dalla stessa polizia. La quarta opzione è invece il sequestro di persona, praticato soprattutto a Kufrah. Cittadini libici locali comprano la libertà di alcuni migranti detenuti, corrompendo la polizia, e poi li tengono ostaggi nella propria casa fin tanto che non pagano un riscatto di tasca propria o tramite un Western Union inviato dai parenti all’estero.

La vita dei migranti in Libia è a rischio molto prima delle eventuali espulsioni, fin dai viaggi attraverso il deserto per entrare nel Paese e raggiungere il Mediterraneo. Le piste transahariane sono disseminate degli scheletri dei clandestini. Il Sahara è un passaggio obbligato. E più pericoloso del mare. La vita nel deserto è appesa a un filo. Se il motore va in panne, l’auto si insabbia, o l’autista decide di abbandonare i passeggeri e tornarsene indietro da solo, è finita. Nel raggio di centinaia di chilometri non c’è altro che sabbia. Muoiono come mosche ogni mese, ma le notizie filtrano difficilmente. Le  retate in Libia, gli arresti arbitrari, le torture e le deportazioni aiutano a buttarsi nel Mediterraneo, anche a costo di morire, anche a costo di viaggiare con i bambini neonati con cui negli ultimi anni arrivano sempre più spesso le donne rimaste incinte durante viaggi lunghi anni. “Dalla Libia non si torna in patria – dice Abraham, Eritrea -. La vita a Tripoli è un inferno, ma dopo aver visto il deserto e dopo essere stato a Kufrah, non resta che continuare. L’Europa ormai è a pochi chilometri e la vita non ha più  valore”.

A luglio 2018, due ricercatrici di Human Rights Watch hanno visitato quattro centri di detenzione a Tripoli, Misurata e Zuwara, nei quali hanno documentato le condizioni disumane dovute a grave sovraffollamento, igiene precaria, scarsa qualità di cibo e acqua con conseguente malnutrizione, assistenza sanitaria insufficiente, nonché inquietanti resoconti delle violenze subite dalle guardie, tra cui pestaggi, frustate e uso di scariche elettriche.

I detenuti hanno raccontato che le guardie del centro di Karareem li colpivano sulle piante dei piedi.  

In Libia, i bambini rischiano la detenzione tanto quanto gli adulti. Human Rights Watch ha trovato un gran numero di minori, persino neonati, reclusi in condizioni gravemente inadeguate nei centri di Ain Zara, Tajoura e Misurata. L’alimentazione è insufficiente sia per loro che per chi li accudisce, comprese le madri che allattano. L’assistenza sanitaria per i bambini, come del resto per gli adulti, è assente o a dir poco deficitaria. Non ci sono attività regolari e organizzate, né aree giochi o programmi didattici di alcun tipo. 

Violenze sessuali orribili e di routine. Violenze cui sono sottoposti praticamente tutti i migranti in transito per la Libia: uomini, donne, bambini e bambine. Violenze che spesso vengono filmate e girate via Skype ai parenti delle vittime per spingerli a pagare ingenti somme di denaro come riscatto. 

Lo afferma un report della Commissione Onu per le Donne rifugiate che ha intervistato centinaia di sopravvissute all’inferno libico. 

“La violenza sessuale crudele e brutale, oltre alla tortura, è consumata come una prassi consolidata tanto nelle carceri clandestine quanto nei centri di detenzione ufficiali del Governo libico. Ma gli stupri sono perpetrati di routine anche durante gli arresti casuali e nell’ambito dei lavori forzati, che possiamo anche chiamare ‘schiavitù’, ai quali sono costrette le donne e gli uomini migranti”, spiega Sarah Chynoweth, portavoce dalla Commissione che cha subito sottolineato come sia “assolutamente insostenibile che i rifugiati che riescono a fuggire attraverso il Mediterraneo vengano intercettati, riconsegnati alla Libia e costretti ancora a subire queste violenze”. La Commissione cita esplicitamente l’accordo firmato dall’Italia nel 2017, quando, con il sostegno dell’Unione Europea, che ha finanziato con decine di milioni di euro la Guida costiera libica che opera in un clima di assoluta impunità, fornendogli anche i mezzi per catturare i migrati e riportarli nei centri di tortura.

Sono storie orribile e racconti da farti venire il voltastomaco, quelli che – a fatica – gli psicologi e gli operatori specializzati riescono a cavar fuori dai sopravvissuti. Storie di stupri di una violenza inaudita, di torture indicibili, di mutilazioni genitali di massa, di fratelli costretti a violentare le sorelle o la stessa madre. Alcuni rifugiati hanno raccontato di fosse comuni riempire di cadaveri con i genitali tagliati lasciato fuori a marcire. Storie quasi impossibili da raccontare. Per vergogna, incredulità, e anche per paura. “Ci minacciano di fare delle cose orribili ai nostri fratelli e alle nostre sorelle rimasti laggiù, se raccontiamo in Europa quello che accade in Libia” ha detto un ragazzino ai soccorritori dell’Aquarius. 

Orrori che vengono filmati e mostrati ai parenti rimasti in patria per estorcere denaro. Quando alle famiglie è stato rubato tutto quello che si poteva rubare, i carcerieri permettono ai migranti ancora vivi di continuare il viaggio. Il viaggio della disperazione. E, spesso, della morte.

 

 

Native

Articoli correlati