La "comandante Maglie" va alla guerra in Libia, ma armata solo con Twitter
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La "comandante Maglie" va alla guerra in Libia, ma armata solo con Twitter

La giornalista amata dall'estrema destra pretende che l'Italia vada a Bengasi a riprendersi i pescatori. Ovviamente sparare fesserie è facile: ma sa costei cos'è la guerra o un'operazione di polizia internazionale?

Maria Giovanna Maglie e Matteo Salvini
Maria Giovanna Maglie e Matteo Salvini
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

10 Ottobre 2020 - 17.54


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Sono i “comandanti” da salotto mediatico. Quelli del mai tramontato “armiamoci e partite”, grottesca riedizione del “spezzeremo le reni alla Grecia” di mussoliniana memoria. Di strategie militari non sanno nulla, ma su quel nulla pontificano. “Imbracciano” Twitter come fosse un Ak-47. E sparano raffiche di, per usare un francesismo, minchiate. L’ultima, in ordine di tempo, è “andiamoci a riprenderci i nostri pescatori” imprigionati da oltre un mese a Bengasi ,dopo che miliziani al soldo del generale Khalifa Haftar hanno abbordato e sequestrato le due motopesca  di Mazara del Vallo sulle quali erano imbarcati.

Che i nostri connazionali siano tenuti in ostaggio dall’(ex) uomo forte della Cirenaica per essere utilizzati come arma di ricatto verso l’Italia, Globalist lo ha documentato in più articoli.

Così come abbiamo raccontato le infelici gesta diplomatiche dell’improponibile ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

Ma nessuna persona che sa cosa sia veramente una guerra o una operazione di polizia internazionale, può non sobbalzare davanti alla sparata della “comandante Maglie”, intendendo Maria Giovanna, giornalista e opinionista di fama.

In un Tweet, l’indignata Maria Giovanna ha esortato, con parole di italica fierezza, il pavido governo italiano a rompere gli indugi e andarsi a riprendere i nostri pescatori. “Uno Stato e un governo degno di questo nome i#pescatori italiani #prigionieri in Libia li va a riprendere e li riporta a casa. #CIALTRONI.

Subito a plaudire per l’ardimentosa trovata è un altro esponente della politica muscolare: Matteo Salvini. “Sacrosanto”, pontifica l’ex ministro dell’Interno rilanciando l’ordine di servizio della “comandante Maglie”.

Ma sì, andiamo a riprenderceli. Come? Questo la comandante Maglie e il suo attendente Salvini (quello spernacchiato da tutti i governi dei Paesi della sponda Sud del Mediterraneo per la pretesa di voler riempirli di hot spot) non lo dicono. Non lo dicono perché non lo sanno. Un blitz delle teste di cuoio? Un’operazione coordinata tra la Marina Militare e i nostri 007 sul campo?  Vallo a sapere. L’importante è spararla grossa. E’ fare notizia. Oggi con i pescatori da liberare manu militari, ieri con la storia del blocco navale. Fervida sostenitrice del blocco è l’”ammiraglia Meloni”, intesa per Giorgia, leader, in crescita, di Fratelli d’Italia.

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Fuori dalle polemiche di parte, varrebbe la pena ricordare che cosa significhi concretamente, attuare un serio “blocco navale”. Per implementare il blocco navale devono essere impiegati almeno 5000 uomini sul terreno, a difesa delle struttura strategiche, 4/6 droni da media e bassa quota per la sorveglianza delle coste, una nave con funzioni di comando e capacità di appoggio aereo per la quale immaginiamo la portaerei Cavour, due cacciatorpediniere per la protezione aerea nel caso in cui un Mig libico volesse compiere un attacco contro la nostra portaerei, una decina di unità minori, corvette e pattugliatori per imporre fisicamente il blocco navale e chiare regole di ingaggio, onde evitare che i nostri uomini diventino bersagli impotenti di terroristi e scafisti, spiega, con dovizia di particolari,  un report del Geopolitical Center. 

Fregate, corvette e pattugliatori posizionati a tre miglia dalle coste libiche e coordinati da una nave da assalto anfibio tipo San Giorgio sarebbero in grado – rimarca l’analista militare Gianandrea Giani – di controllare in modo capillare l’area costiera intorno a Zawyah, la più vicina a Lampedusa, da dove salpano la gran parte dei barconi di migranti. La sicurezza del tratto di litorale e la deterrenza contro eventuali attacchi di miliziani verrebbero garantite dai cannoni delle navi, dagli elicotteri e dai jet da combattimento decollati dalle portaerei Cavour o Garibaldi o dalle basi dell’aeronautica di Trapani e Pantelleria. Per impedire l’avanzata delle navi con a bordo i migranti, le imbarcazioni militari di vedetta devono attuare delle manovre strategiche (spesso utilizzate in tempi di guerra), una di queste è la navigazione a cerchi concentrici che restringe sempre più il raggio di navigazione della nave clandestina.

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“Per ottenere un reale sbarramento, considerata la vastità dell’area da controllare, servirebbe quindi un elevatissimo numero di navi e velivoli, con costi di esercizio comprensibilmente insostenibili, considerando anche la necessità di turnazione dei mezzi. Chi pensa che sia agevole attuare questo “blocco”, probabilmente è stato fuorviato dalle immagini che venivano proposte qualche tempo fa negli studi televisivi, dove su di una cartina più o meno fedele del Mediterraneo Centrale venivano sovrapposte, per ovvie ragioni di comprensibilità, grandi icone di navi ed elicotteri che sembravano dominare agevolmente l’area …Una volta poi localizzato il natante sospetto, si deve essere in grado di porre in atto le azioni conseguenti, ovvero imporne lo stop, verificare l’illecito, contestarlo al responsabile dell’imbarcazione, attuare le azioni di respingimento o sequestro. Il tutto in accordo con la legislazione internazionale e ovviamente senza pregiudizio per l’incolumità degli occupanti della barca. È evidente che servono mezzi adeguati, anche dimensionalmente: l’avvicinarsi a piccole imbarcazioni da parte di navi delle dimensioni di un pattugliatore d’altura è estremamente rischioso (caso Sibilla docet…). E naturalmente, in relazione alle condizioni meteo, alle condizioni dei natanti intercettati, spesso fatiscenti, e all’elevato numero di persone a bordo, molto spesso l’operazione di law enforcement si trasforma rapidamente in una di salvataggio”, sintetizza efficacemente   il think tank “Il Nodo di Gordio”.

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In conclusione. La parola chiave, quella impronunciabile è un’altra. Quella parola è “combattere”. Combattere per davvero. Combattere significa definire regole d’ingaggio non difensive; significa impegnarsi attivamente non solo nell’addestramento di ciò che resta dell’esercito libico, ma agire per disarmare le milizie, liberare i centri ancora occupati dalle diramazioni nordafricane dello Stato islamico, alla frontiera tra la Libia e la Tunisia. Significa mettere in campo, in una prospettiva di medio termine, non qualche migliaio di uomini, ma una forza, concordano gli analisti, di almeno 50mila unità. Combattere a terra, e non solo con missioni aeree o bombardamenti navali. Significa scontrarsi con carcerieri addestrati e in armi per liberare i pescatori italiani.  Significa preparare l’opinione pubblica a situazioni di rischio e anche a pagare un tributo di sangue. In una parola, significa prepararsi a una guerra. Alle porte dell’Italia.

Ma questo non sembra interessare alla “comandante Maglie”. Per lei sono dettagli, effetti collaterali di una nerboruta politica delle chiacchiere. Povera Italia…

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