La Tunisia è un vulcano in eruzione. E l'Italia rischia forte
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La Tunisia è un vulcano in eruzione. E l'Italia rischia forte

Da tempo il paese si è trasformato in luogo di transito dei migranti. Pescatori tunisini che fanno gli scafisti. Usando il sistema “nave madre’ che arriva a poche miglia dalla costa e poi si arriva su un barchino.

Sbarchi a Lampedusa
Sbarchi a Lampedusa
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

30 Luglio 2020 - 15.44


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Resocontando in Consiglio dei ministri la sua missione di lunedì scorso a Tunisi, la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha lanciato l’allarme rosso: la Tunisia, avrebbe detto secondo fonti bene informate, non smentite da Palazzo Chigi,  è un “vulcano in eruzione”. E l’Italia rischia di essere investita da questa “eruzione”, con un massiccio incremento di migranti che cercano di raggiungere il nostro Paese.

Vulcano in eruzione

Come documentato da Globalist, da tempo ormai la Tunisia si è trasformata da Paese di transito in Paese di origine del flusso di migranti. Pescatori tunisini che si trasformano in scafisti. Usando un sistema che sembrava abbandonato: quello della “nave madre’ che trasporta i migranti fino a poche miglia dalla costa e poi fa completare il viaggio su un barchino. In un’intervista alla Stampa, il procuratore aggiunto di Agrigento Salvatore Vella commenta l’aumento degli sbarchi di migranti provenienti dalla Tunisia. Vella, insieme al capo dell’ufficio Luigi Patronaggio, ha coordinato l’ultima indagine che ha portato all’arresto di 23 tunisini durante un blitz della Guardia di finanza e della Guardia costiera di Lampedusa.“Quell’operazione ci ha aperto un mondo” commenta, riferendosi al motopesca sequestrato: oltre al regolare equipaggio c’erano altre undici persone (forse a bordo per lavorare in cambio di un ‘passaggio’ per l’Italia) e cinque migranti che avevano pagato 1250 euro per fare la traversata. Il sistema dei pescherecci, commenta, sembrava in disuso, ma forse potrebbe spiegare i nuovi sbarchi. “Sembra di essere tornati a dieci anni fa – dice Vella – con una differenza degna di nota. Prima i pescherecci viaggiavano senza reti o attrezzature proprio perché in realtà dovevano solo trasportare i migranti, ora fanno sia i pescatori che gli scafisti. Abbiamo trovato a bordo reti, anche se asciutte, e un po’ di pesce”. Sono centinaia i barchini di piccole dimensioni arrivati in queste settimane a Lampedusa. “Ogni giorno sequestriamo una trentina di barche – dice Vella alla Stampa – e trattiamo una ventina di arresti in flagranza, perché si tratta di persone già espulse che provano a tornare in Italia prima del tempo”. Arrivano quasi sempre tunisini, precisa Vella “quindi migranti economici che quasi mai possono avere protezione umanitaria anche se c’è chi prova a fare il furbo con stratagemmi”. Il procuratore spiega che è difficile individuare i pescherecci con i migranti a bordo mentre attraversano il canale di Sicilia, confondendosi con le altre imbarcazioni. Non si notano né dall’alto né dalle altre barche, perché i barchini a bordo dei pescherecci servono in ogni caso a stendere le enormi reti da pesca. 

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Il Viminale dà i numeri

Sono ripresi il 16 luglio scorso – dopo lo stop dovuto al Covid – i voli di rimpatrio dall’Italia verso la Tunisia. Tre finora i charter: il 16, il 23 ed il 27 luglio; un altro è in programma domani. Complessivamente – si apprende da fonti del Viminale – un’ottantina i migranti tunisini rimandati in Patria. La “macchina” si è quindi rimessa in moto, anche se per aumentare i numeri – visto l’imponente flusso migratorio in atto dal Paese nordafricano verso l’Italia – servirebbe un nuovo accordo con Tunisi, che però al momento non ha un Governo in carica con cui definire l’intesa. C’è comunque un pressing in atto – per accrescere i rimpatri. Nel dettaglio, la nota specifica che “per quanto riguarda la giornata odierna: sono stati trasferiti dall’hotspot dell’isola di Lampedusa 410 migranti grazie anche alla Guardia di Finanza e alla Guardia costiera; a Lampedusa sono stati effettuati 50 tamponi ed entro domani saranno 590 quelli fin qui eseguiti sugli sbarcati sull’isola. 
“L’obiettivo del Governo è quello di poter disporre nei prossimi giorni almeno di due unità navali” da destinare alla quarantena dei migranti che sbarcano. Così il Viminale, ricordando che sono cinque le manifestazioni di interesse per il noleggio di navi con capienza di circa 600 posti arrivate per gara bandita dal ministero dei Trasporti. La procedura terminerà venerdì. Inoltre, aggiunge il ministero, «è stata avviata la bonifica di un’area militare che ospiterà ricoveri abitativi destinati al periodo di isolamento fiduciario dei migranti”.

Allarme naufragi

Ieri, secondo i media tunisini, si è verificato un naufragio vicino alle coste di Mehdia. Una persona è stata salvata dopo aver trascorso 4 giorni in mare, 24 persone sono ancora disperse. Questo è il terzo naufragio Tunisia questa settimana”. Lo afferma Alarm Phone che aggiunge anche che non ci sono più notizie dei 17 migranti da oltre due giorni in pericolo nel Mediterraneo: “Abbiamo provato a contattare tutte le autorità durante la notte ma nessuno risponde al telefono. Abbiamo perso il contatto con le 17 persone 14 ore fa. Non sappiamo cosa sia successo o dove siano. Chiediamo non solo il soccorso, ma anche la fine di questo silenzio istituzionale”.

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Crisi sociale e instabilità politica

Alla base della fuga di tunisini dal Paese nordafricano c’è una crescente crisi sociale ed economica resa ancora più devastante dall’emergenza Covid-19. La pandemia ha provocato la chiusura delle infrastrutture turistiche: Hammamet, Sfax, Cartagine, Djerba, Tunisi, gli europei in vacanza sono spariti. Tutti quelli che lavoravano nel comparto sono senza impiego e vanno via. 

I “gelsomini” non bastano per sfamare un popolo. I diritti non si mangiano. Una “rivoluzione” non si consolida se non riesce a dare un tetto, un lavoro, un futuro ad un popolo giovane. A nove anni dalla revolution yasmine, la Tunisia si riscopre inquieta, pervasa da un malessere sociale che investe tutti i settori della popolazione. Diplomati, laureati, professionisti: la protesta parte da lì. E dai ragazzi: un popolo sotto i 35 anni che si trova governato da una classe politica di ottuagenari.  La loro è anche una rivolta generazionale.

“Quello compiuto in questi nove anni – dice a Globalist Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail) Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo – non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”.

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Nell’ultimo anno il Pil è cresciuto meno dell’1 per cento, la disoccupazione è schizzata invece al 15% (anche se secondo chi protesta la percentuale è almeno il doppio). I disoccupati sono oltre 600 mila, di cui più di un terzo in possesso di diploma di istruzione superiore .

Le conquiste democratiche, avviate dopo la fuga dell’ex presidente Zine El Abidine Ben Ali, il 14 gennaio 2011, non sono state accompagnate da una crescita economica in cui tutti speravano. Secondo l’ex ministro dell’Economia, Houcine Dimassi, “tutti i numeri indicano un netto peggioramento della situazione economica rispetto al 2010-2011”, quando Tunisi registrava un aumento del Pil tra il 4 e il 5 per cento. Una crisi economica drammatica, che non risparmia i beni primari: tutto è caro, la carne rossa costa 25 dinari al chilo, in tavola arriva se va bene una volta al mese. Senza contare che bisogna pagare l’affitto, le bollette, l’assistenza sanitaria, che non è più gratuita per nessuno, neanche per chi ne avrebbe diritto. Un dramma per un Paese, ,  che ha la disoccupazione al 30% e ben poche speranze di mobilità sociale.

A rendere ancor più drammatica la situazione è l’instabilità politica: il duello interno tra islamici e laici ha portato tre settimane fa alle dimissioni del premier Elyes Fakhfakh, che ha lasciato il suo nuovo governo varato a febbraio. D’altro canto, rimarcano gli analisti politici a Tunisi, Fakhfakh era stato nominato come ultima chance, perché il Paese  era senza esecutivo e già c’erano stati altri tentativi che non erano andati a buon fine. In particolare, rimarcano le fonti, va ricordato che il partito islamista Ennahdha, prima forza parlamentare, lo ha appoggiato senza troppa convinzione: non aveva altre possibilità d’altronde, visto che c’è una parte di cittadini che lo ritiene responsabile della non ripartenza economica e di produrre instabilità istituzionale.

In questo scenario denso di incognite, chi non ha speranza fa di tutto pur di ritrovarla. Fuori dalla Tunisia, in Europa. Pensare di fermarli chiudendo i porti o trasformando la Guardia costiera tunisina in una sorta di replica della nefasta Guardia costiera libica, non è soltanto diventare complici di abusi e crimini, ma è anche una illusione: perché a chi è negato un futuro, non ha più nulla da perdere. E non sarà la militarizzazione delle frontiere esterne a “proteggere” l’Italia.

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