Kabul, la nuova "Raqqa" dell'Isis. E ora per Trump i Talebani sono il "male minore
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Kabul, la nuova "Raqqa" dell'Isis. E ora per Trump i Talebani sono il "male minore

Un attentato durante la cerimonia di commemorazione per i 25 anni dall'uccisione del leader sciita Abdul Ali Mazari segna l'inizio di una nuova offensiva dello Stato Islamico

L'isis rivendica l'attentato a Kabul
L'isis rivendica l'attentato a Kabul
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Marzo 2020 - 12.51


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Kabul, la nuova “Raqqa” di Daesh. Lo Stato islamico ha rivendicato sul suo sito web la responsabilità dell’attentato a Kabul, capitale dell’Afghanistan, avvenuto ieri durante la cerimonia di commemorazione per i 25 anni dall’uccisione del leader sciita Abdul Ali Mazari. Nell’attacco sono rimasti uccisi almeno 32 civili, secondo quanto riferito dal ministero dell’Interno e da quello della Salute. Gli hazara sono la più importante comunità sciita dell’Afghanistan, fra il 15 e il 20 per cento della popolazione, e sono odiati dai jihadisti, in particolare dall’Isis, che ha compiuto numerosi attacchi a moschee e santuari sciiti negli ultimi quattro anni.

La trincea della Jihad

L’attacco è stato scatenato appena il presidente del High Peace Council, Karim Khalili, ha cominciato il suo discorso alla presenza delle autorità politiche, compreso il premier Abdullah Abdullah, sfidante dell’appena rieletto presidente Ashraf Ghani. I talebani “potrebbero prendere il potere in Afghanistan” dopo il ritiro delle truppe Usa, ha ammesso il presidente americano Donald Trump. Ma in Afghanistan operano altri gruppi jihadisti, come il Network Haqqani, manovrato dai Servizi pachistani, e lo Stato islamico, che ha cellule nella capitale e controlla una piccola fetta di territorio al confine con il Pakistan. L’attacco di ieri ha caratteristiche settarie e mostra quanto sia ancora lontana la pace, nonostante l’intesa fra Donald Trump e gli studenti barbuti, che dovrebbe portare al ritiro di tutte le truppe della Nato entro 14 mesi, compresi gli 800 militari italiani ancora nel Paese. Oggi sono presenti ancora 13 mila soldati statunitensi e circa 3 mila delle nazioni alleate.

L’Afghanistan non è l’Iraq o la Siria, dove gli affiliati all’Isis combattono i curdi, i cristiani e gli sciiti. Qui il potere è conteso ad altri sunniti, i talebani, e più che per conquistare nuovi territori al “califfato”, si combatte per assicurarsi il controllo delle rotte del commercio dei narcotici. La “fabbrica” talebana di oppiacei mantiene salda la prima posizione mondiale, infatti l’eroina afghana raggiunge quasi tutto il globo. Due dati particolarmente indicativi: copre il fabbisogno del 90% del Canada e dell’85% circa delle richieste mondiali. La produzione e gestione del traffico di droga è la fonte principale di finanziamento dei talebani. Un traffico enorme, fortemente consolidato nella sua catena di produzione-vendita-incasso di milioni di dollari di profitti. Il prodotto viaggia sfruttando tutti i mezzi di trasporto: le rotte aeree e marittime permettono all’eroina afghana di giungere ovunque (eccetto il Sud America, qui vi sono i cartelli narcos che hanno il ‘loro’ prodotto). Le vie terrestri coinvolgono pesantemente Iran e Pakistan, costretti ad impiegare sempre più risorse per contrastare questi flussi. Lo Stato islamico è entrato in questa partita. La provincia di Nangarhar, nella parte orientale del Paese, al confine con il Pakistan, e ora è in buona parte occupata dall’Isis. L’invasione è cominciata nell’estate del 2014, quando dal confine sono arrivati un centinaio di talebani pakistani che, dopo essere scappati dall’esercito, si sono uniti a una fazione di talebani afghani.

Il fallimento dell’Occidente

Nel gennaio 2017, l’Isis ha annunciato la nascita di una nuova fazione locale in Afghanistan, alla quale hanno velocemente aderito molti fuoriusciti dai talebani: gli afghani di Nangarhar non lo sapevano, ma si trattava proprio dei pakistani rifugiati nelle loro case. Dopo un anno di alleanza con i talebani afghani, in estate, l’Isis è venuto allo scoperto predicando in moschea un islam rigidamente wahabita (lo stesso professato in Arabia Saudita).  A luglio sono cominciati i primi scontri a fuoco tra i talebani afghani e i pakistani, passati all’Isis.  Dopo un mese circa di combattimenti, l’Isis si è impossessato della zona, nonostante gli americani bombardassero sia loro che i talebani. Passando villaggio per villaggio e casa per casa, i jihadisti hanno rubato i mezzi di sostentamento ai residenti, distruggendo scuole e madrasse talebane, imponendo una nuova legge. Le abitazioni dei talebani sono state bruciate e chi veniva sospettato di essere loro alleato è stato rapito e seviziato.

Una recente inchiesta della Bbc metteva in evidenza come l’adesione allo Stato islamico fosse divenuta economicamente più appetibile per gli afghani, considerato lo stipendio di 500$ mensili, cui il movimento talebano (in guerra dal 2001) non può sicuramente entrare in concorrenza. Il pericolo di un progressivo sbilanciamento di forze a favore delle bandiere nere era stato denunciato dallo stesso leader Mullah Omar, ora defunto, in una lettera proprio rivolta al Califfo Al-Baghdadi, anche lui passato a miglior vita. Nella stessa, il Mullah intimava il fu Califfo di “non cercare di penetrare in Afghanistan” e che la sua azione stava “pericolosamente dividendo il mondo musulmano. E a rendere ancora più ingovernabile il Paese è la frammentazione etnico-tribale, che ha assunto tratti sempre più profondi: alla maggioranza etnica Pashtun, si aggiungono Tajiki, HazaraUzbechi, AimakTurkmeni e Baluchi.

Dopo diciannove anni di guerra, lo Stato afghano appare oggi una entità fallita. Diciannove anni di guerra, ovvero oltre 140 mila morti, tra cui almeno 26 mila civili. A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati Nato (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri. Una guerra costata 900 miliardi di dollari, 7,5 per l’Italia. Afghanistan, 2001-2020: storia di un fallimento. Militare e politico. Perché la Nato non è riuscita né a sconfiggere i talebani, né a riportare la pace né a ricostruire un esercito in grado di contrastarli.

Sul terreno si assiste ad una competizione per la leadership del terrore tra l’Isis, che sta arruolando i pashtun, e al Qaeda 2.0. Una concorrenza che non oscura il dato di realtà: l’idea del “califfato” prende sempre più piede, e territori, in Afghanistan. E il “futuro” assomiglia sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento militare dell’ottobre 2001: un Paese-santuario dell’islam radicale armato.

Il “male minore”

E così, nella logica delle alleanze variabili che connota, in politica estera, l’”America first” d Donald Trump, i talebani possono diventare il “male minore” con cui venire a patti, come sta accadendo in Siria con Bashar al-Assad.  Resta il fatto, incontestabile, che dall’avvio della “guerra al terrorismo” qaedista, nell’ottobre 2001, l’Afghanistan è un Paese che non sa cosa sia la pacificazione, dove a prosperare sono solo i traffici di armi e di droga. Un Paese dove imperano milizie jihadiste, “signori della guerra” e califfi eterodiretti; un Paese dove nessuno può dirsi al sicuro. Per il giornalista francese Jean-Pierre Perrin, autore del libro Le djihad contre le rêve d’Alexandre, una storia dell’Afghanistan dal 330 a.C. ai giorni nostri, gli occidentali hanno già perso: “I Paesi occidentali non vogliono riconoscere questa umiliante sconfitta. E ancora meno sono disposti ad accettare che sia stata inflitta loro da bande di irregolari male armati, male addestrati, poco equipaggiati e dieci volte meno numerosi. Questa sconfitta ci riporta ai fallimenti degli invasori precedenti: gli inglesi in tre occasioni – e la prima volta risaliva a qualche anno dopo la vittoria su Napoleone – i russi e prima di loro altri eserciti stranieri meno importanti come gli iraniani. Del resto non è un caso se l’Afghanistan è chiamato il ‘cimitero degli imperi’”.  Un “cimitero” dal quale tutti vorrebbero andarsene. Senza, però, dare l’idea di una fuga dalla sconfitta.

Quanto all’accordo di “pace” Usa-Talebani, vale quanto scritto da Franco Venturini sul Corriere della Sera:” È la pace di Donald Trump, che vuole avere il tempo e il modo di ritirare dalla ‘Tomba degli imperi’ afghana quasi tutti i suoi 13.000 soldati prima delle elezioni presidenziali di novembre, e che già tra 135 giorni potrà esibire agli elettori statunitensi una riduzione del contingente a 8.600 uomini. Quanto dovrebbe bastargli per rimanere alla Casa Bianca. Già tra 135 giorni il Presidente potrà esibire agli elettori statunitensi una riduzione del contingente a 8.600 uomini. Quanto dovrebbe bastargli per rimanere alla Casa Bianca. È la pace dei Talebani, ai quali per tornare al potere viene chiesta soltanto la stessa pazienza che ebbero i nordvietnamiti quando gli statunitensi cominciarono a ripiegare, fino a quell’ultimo sovraccarico elicottero in partenza nel 1975 dal tetto dell’ambasciata di Saigon. Forse si può sperare che sia anche la pace delle popolazioni civili afghane, che hanno pagato un prezzo esorbitante alla ferocia o alla mancanza di cautela di entrambi gli schieramenti. Ma non è la pace, questa, degli afghanche si sono battuti con enormi perdite a fianco degli occidentali, e che ora sono stati esclusi dai negoziati con i Talebani in cambio di un vago dialogo interafghano’ che proprio ieri (28 febbraio, ndr) ha fatto emergere un primo contrasto sul numero di prigionieri che il governo di Kabul dovrebbe liberare (cinquemila?) in cambio dei mille lasciati andare dai Talebani…”.

Così è. La verità, amara, sanguinosa, è che l’Afghanistan resta un  “cimitero” dal quale tutti vorrebbero andarsene. Senza, però, dare l’idea di una fuga dalla sconfitta. E per farlo si spaccia per “pace” una resa ai Talebani.

 

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