Dopo Barcellona il Marocco si scopre culla di jihadisti assassini

Se la guerra all'Isis dovesse finire con la sconfitta del Califfato, il Marocco potrebbe vedere tornare almeno 1.600 giovani andati a combattere in Siria e Iraq

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Diego Minuti Modifica articolo

19 Agosto 2017 - 17.19


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La difficoltà di fronteggiare con efficacia il terrorismo islamico ha una plastica rappresentazione nel Marocco, che ben sa che molti radicali islamici siano presenti entro i suoi confini, ma che ora si scopre come culla di jihadisti assassini da esportazione, come il luogo fisico dove dietro ogni bravo ragazzo può nascondersi un potenziale terrorista stragista.
Il quadro delle reazioni marocchine a quanto accaduto in Catalogna, come in Finlandia, è in mezzo al guado tra lo sconcerto della gente comune e lo shock di chi conosce bene le famiglie dei giovanissimi componenti il commando di Barcellona e Cambrils e non riesce a credere che quei mocciosi che giocavano a si azzuffavano in strada siano potuti diventare il braccio sanguinario di una religione che sa essere anche crudele.
I fratelli Oukabir sono originari di Melouya, un villaggio sui contrafforti dell’Atlante dove tutti si conoscono e sanno ogni cosa che riguardi i loro vicini ed amici. Ma che Driss e Moussa potessero armare il braccio per innalzare la gloria del Califfato nero è cosa che nessuno poteva pensare. Tanto che la reazioni dei loro congiunti sono all’insegna della vergogna e non riescono a comprendere e quindi farsene una ragione. E’ un po’ il sentimento che traspare a leggere le cronache che i media marocchini fanno del dopo Barcellona, raccontando (pur se preferiscono riprendere agenzie europee), ma fermandosi, non approfondendo, quasi che si pensi che, oltre a quella personale, ci possa essere una responsabilità più ampia: dalla famiglia, che non ha saputo intervenire, alle forze di sicurezza, in Marocco ed anche in Spagna, che non hanno saputo decrittare segnali che pure sembravano inquietanti.
I morti di Barcellona, come quelli di Cambrils, come anche quelli di Turku sembrano essere parte di una tragedia, ma di non esserne il cuore, perché ancora non si comprende quale sia stata la causa scatenante della nefasta trasformazione dei ‘bravi ragazzi’, una cosa che potrebbe ripetersi domani o anche oggi in uno dei villaggi del Marocco rurale o in uno dei casermoni alle periferie delle città più grandi.
In nessuna delle analisi dei pur attenti osservatori marocchini si coglie una critica all’apparato di intelligence del Regno, che pur avendo già pagato un prezzo altissimo al terrorismo (basti pensare alla strage del caffè Argana, del 2011, nella medina di Marrakesh), non sembra potere vincere la sfida che la jihad ha lanciato. Non per mancanza di volontà, ma perché il fronte dell’integralismo islamico è talmente vasto e composito da rendere illusoria ogni speranza di vittoria finale. Eppure, appena due anni fa è stato istituito il Bureau central des investigations judiciaires, creato appunto in funzione anti-terrorismo e che ha centralizzato le indagini sul radicalismo islamico, sino ad allora frantumate per effetto della rigida territorialità della polizia giudiziaria. I risultati sono arrivati, molte le operazioni condotte, centinaia i presunti jihadisti finiti in galera (ed i soggiorni forzati in quelle del Regno non sono come settimane in un hammam) , ma la lotta è lontana dall’essere risolta positivamente. I media, che su questo specifico argomento, sono sempre molto vicini al governo ed a re Mohammed, tendono ad enfatizzare i risultati ed a trattare con un certo distacco formale le sconfitte. Ci sta anche questo, però forse così si corre il rischio di marginalizzare il fenomeno nella percezione della gente. Che poi ha risvegli bruschi come quelli seguiti alle vicende catalane e finlandesi.

Ma, almeno ad oggi, il pericolo terroristico dentro il Marocco viene percepito come lontano, perché il trascorrere del tempo tende a fare dimenticare le offese portate dal radicalismo armato islamico al Regno. Ma la realtà potrebbe questa volta costringere i marocchini a guardare con preoccupazione al futuro perché, se la guerra all’Isis dovesse proseguire con nuovi rovesci per il Califfato, il Marocco potrebbe vedere tornare almeno 1.600 giovani andati a combattere in Siria e Iraq all’ombra dei neri vessilli di al Baghdadi. Cosa fare, si domanda un intero Paese? Farli rientrare, accettarli e cercare di fare percorrere loro un cammino di riabilitazione o respingerli, per evitare che portino la guerra in Marocco? E’ un interrogativo che non è solo politico (la decisione spetta al governo, che ha già mille problemi da affrontare) o di sicurezza (arriverebbero senza armi, ma con una preparazione militare superiore anche a quella delle unità d’élite marocchine, comunque non addestrate alla guerriglia urbana in cui si sono formati i foreingh fighters), ma anche religioso. Perché, nonostante quello che pensa la maggioranza degli occidentali, l’islam vero è religione di accoglienza, solidarietà, fratellanza. Sentimenti che gli jihadisti hanno ripudiato, ma che potrebbero riservare loro i connazionali che credono in un islam pulito da ogni incrostazione guerresca. La proposta, che ancora viene solo sussurrata, è che gli jihadisti di ritornto vengano processati e condannati anche a lunghe pene detentive. Ma cosa sarà di loro, una volta espiata la condanna se nel loro cuore albergheranno ancora i canti di guerra del Califfato? Ed in caso di respingimento, non si sposterebbe al di là dei confini il problema, con il rischio di vedersi colpiti in casa da terroristi che vogliono vendicarsi?
Il Marocco, sotto la monarchia illuminata di Mohammed VI, ha in sé le potenzialità per vincere questa battaglia, ma non può restare solo, non può essere lasciato solo. Scambiare le informazioni non è accogliere un grido di aiuto, ma porre gli Stati sullo stesso piano e motivarli a collaborare, sapendo che la posta in palio è altissima: il sole del vivere civile contro l’oscurantismo di chi crede che esiste solo la violenza .

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