Scandalo pedofilia in Afghanistan: marines Usa costretti a tacere

I soldati americani di base in Afghanistan hanno l'ordine di ignorare gli abusi sessuali sui minori compiuti dalla polizia afghana. Per quale motivo?

Scandalo pedofilia in Afghanistan: marines Usa costretti a tacere
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22 Settembre 2015 - 10.24


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Emerge una nuova pagina oscura della guerra in Afghanistan. Ai militari statunitensi veniva sistematicamente ordinato di ignorare i ripetuti casi di pedofilia dei quali sono responsabili gli ufficiali della polizia e dell’esercito afghano loro alleati. Le direttive dei comandi militari Usa erano di non interferire con quello che viene considerato un aspetto, seppure odioso, della cultura locale e di voltarsi dall’altra parte ogni volta che si assiste a casi di “bacha bazi”, letteralmente “giocare con i bambini”.

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L’ordine valeva anche quando gli ufficiali afghani trascinavano i loro piccoli schiavi sessuali all’interno della basi che condividevano con gli americani. A raccontare quella che potrebbe rivelarsi come una delle pagine più controverse della lunga presenza militare americana in Afghanistan è il New York Times, che ha intervistato alcuni dei militari Usa che hanno disobbedito agli ordini, intervenendo per fermare gli abusi e in alcuni casi hanno subito provvedimenti disciplinari o sono stati costretti a lasciare l’esercito.
In basso il commento di Rodolfo Casadei pubblicato su [url”Tempi”]http://www.tempi.it/blog/perche-il-new-york-times-saccorge-solo-ora-della-pedofilia-in-afghanistan#.VgEQd9_tmkp[/url] ‘Perché il New York Times s’accorge solo ora della pedofilia in Afghanistan’.

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Chi ha il potere tutti i giorni prende per il naso chi non ha il potere. Prendere per il naso chi non ha il potere è politica necessaria alla conservazione del potere da parte di chi lo detiene. Non basta che chi non ha potere non abbia potere: è necessario sottometterlo tutti i giorni, colonizzare la sua mente, per mantenere i rapporti di forza dominanti. La verità è rivoluzionaria, la verità rende liberi, la verità svela l’ingiustizia. In potenza noi giornalisti e commentatori siamo il ceto più rivoluzionario della società d’oggi, nella realtà quasi sempre siamo servi obbedienti del sistema, ricattati dalle nostre debolezze umane. Prendiamo la questione della retribuzione: alcuni di noi rinunciano a servire la verità a causa della precarietà della loro condizione economica, che non gli permette di scegliere l’audacia della libertà; altri si sottraggono per il motivo opposto, cioè perché si sono abituati agli agi resi possibili da una sostanziosa retribuzione, e non vogliono rinunciarvi mettendosi a contraddire i loro padroni, o comunque sottraendosi al servaggio.

Di inganni attraverso la comunicazione che sarebbe nostro compito segnalare ai lettori perché non si lascino infinocchiare ce ne sono decine tutti i giorni, nella politica interna come in quella internazionale. Ieri mattina leggevo sul Corriere della Sera una notizia ripresa dal New York Times. L’articolo comincia così: «Soldati Usa di stanza in Afghanistan sono stati testimoni di diversi episodi di violenza sessuale nei confronti di bambini da parte di poliziotti locali, ma sono stati istruiti a ignorare l’accaduto. È quanto emerge da un’inchiesta del New York Times che si basa sul racconto, agghiacciante, di diversi ex militari e sulle loro deposizioni». Bene, siamo nel settembre dell’anno 2015, e dovremmo ricordare che soldati americani e di alcune decine di paesi del mondo, fra i quali la nostra Italia, sono presenti in Afghanistan dal novembre 2001. Di tempo per accorgersi che in quel paese, soprattutto fra i maschi di etnia pashtun nel sud e fra i tagiki nel nord, è molto diffusa e persino socialmente accettata la pratica della pedofilia con ragazzini di 9-15 anni, ce n’è stato in abbondanza. Se la materia non è mai diventata argomento di attrito fra il governo afghano nato dalla sconfitta del regime talebano e la coalizione militare a guida occidentale che gli ha permesso di salire al potere, è evidente che fin dall’inizio è stata fatta la scelta di non permettere a questioni attinenti ai diritti umani di interferire troppo sull’alleanza fra le due entità.
Va precisato che le leggi afghane, oggi come ai tempi dei talebani, proibiscono la pedofilia, popolarmente conosciuta col nome di bacha bazi. Ma è rarissimo che qualcuno venga denunciato e condannato per questo reato: di recente è successo soltanto a soldati del corpo di spedizione occidentale, processati e condannati dalle autorità del loro paese e non da quelle dell’Afghanistan. Probabilmente molti, avendo visto il film del 2007 tratto dal libro di Khaled Hosseini Il cacciatore di aquiloni, si sono fatti l’idea che l’abuso sessuale sui minorenni fosse una prerogativa di chi si era schierato coi talebani. Per loro il servizio del New York Times che rivela che i “nostri” alleati mujaheddin non si comportano affatto meglio dei loro e nostri nemici talebani è una autentica rivelazione. Ma nella realtà decine di articoli e di libri sono usciti negli ultimi 15 anni sul bacha bazi, e hanno spiegato che si tratta di un costume sociale antico, pre-esistente alla colonizzazione britannica dell’Afghanistan, e che durante il regime talebano è stato maggiormente represso di quanto non accada ora. Anche l’articolo del New York Times conferma questo dettaglio, quando cita un militare americano che fa autocritica: «(…) stavamo dando il potere a persone che commettevano cose peggiori dei talebani, come mi dissero anche gli anziani del villaggio».

E allora, direte voi, dove vuoi arrivare? Voglio arrivare a far notare che non è affatto innocente e casuale che il New York Times tiri fuori queste storie adesso, mentre si avvicina la data del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. Obama ha spostato la data dalla fine del 2015 alla fine del 2016, ma la maggior parte delle forze saranno ritirate già nei prossimi mesi. Quel che succederà dopo, tutti già lo immaginano: la guerra civile fra afghani sponsorizzati dai paesi vicini riprenderà su larga scala. La lunga cooperazione militare e civile fra il governo di Hamid Karzai e del suo successore Ashraf Ghani e i contingenti Nato e Isaf apparirà a tutti come un costoso fallimento di risorse sprecate e vite umane perdute. Ecco allora che gli americani cominciano già a preparare il terreno per una ritirata che non faccia perdere loro completamente la faccia, e che gli permetta di riposizionarsi se la prossima guerra intestina in Afghanistan dovesse volgere al peggio per i loro alleati di oggi. Ricordiamoci che Obama improntò la campagna elettorale presidenziale che gli permise di conquistare il suo primato a un cambiamento di politica estera che prevedeva il ritiro delle truppe mandate da G.W. Bush in Iraq e la concentrazione degli sforzi militari americani sull’Afghanistan per debellare una volta per tutte talebani e Al Qaeda. Missione quasi fallita, a sentire molti osservatori dell’odierna realtà politico-militare dell’Afghanistan. E allora meglio cominciare a dire che non siamo noi americani che abbandoniamo gli alleati afghani, ma sono loro che non ci meritano come alleati. Scommettiamo che fra qualche tempo la stampa americana abbonderà di inchieste sulla corruzione in Afghanistan, su come sono stati rubati o dirottati gli aiuti economici occidentali al paese? Non appena il Dipartimento di Stato o la Casa Bianca cominceranno a far filtrare qualcosa delle tonnellate di testimonianze e prove dell’appropriamento degli aiuti da parte dei mujaheddin, le grandi testate si lanceranno in un’altra grande campagna moralizzatrice che susciterà l’indignazione dei loro lettori. Che si sentiranno confermati nella stima che hanno per il loro giornale preferito e che giudicheranno meno severamente la ritirata delle armate occidentali dal paese che non sono riuscite a pacificare e a mettere su un binario di sviluppo politico e sociale accettabile. Così funziona, troppo spesso, il circo dei media e della libera stampa in Occidente.

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