Lo dice anche l'Istat: il nostro è un paese in declino

La fotografia di un paese profondamente indebitato, dove la povertà dei lavoratori dipendenti è aumentata, insieme al fenomeno del lavoro povero, con la diminuzione di salari sufficienti al proprio mantenimento.

Lo dice anche l'Istat: il nostro è un paese in declino
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21 Maggio 2024 - 18.05 Culture


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di Pancrazio Anfuso

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Il Rapporto Annuale dell’Istat sulla situazione del Paese, pubblicato qualche giorno fa, segna le coordinate della posizione dell’Italia: economia, lavoro, istruzione. Un quadro preoccupante che ruota intorno al nodo dei salari che non crescono e dei prezzi che salgono, sospinti dall’inflazione, e si dirama a macchia d’olio in tutte le direzioni, con ripercussioni sui consumi e sulla capacità dei cittadini e delle famiglie di mantenere un livello di vita accettabile.
Sullo sfondo, le conseguenze pesanti del venir meno del Reddito di Cittadinanza, misura imperfetta ma fondamentale per mitigare gli effetti devastanti della pandemia, combinati col fermo lavorativo del lockdown e il crollo conseguente del Pil e delle esportazioni.

Il problema dei salari è cronico, i dati lo ribadiscono di continuo e la fotografia dell’Istat lo conferma. Tra il 2019 e il 2023 il reddito disponibile delle famiglie è diminuito dell’1%, rapportato all’andamento dei prezzi; il livello delle retribuzioni orarie si è mosso nel trienno 2021/23 del 4,7%, contro un aumento dei prezzi al consumo del 17,3%, conseguenza degli aumenti disposti dalle imprese, a seguito dell’aumento delle materie prime, mantenuti inalterati col calare delle stess.e dilatando i redditi fino a recuperare la redditività ante-pandemia.

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Come spesso si nota, insomma, l’aumento dei redditi delle imprese non ha una ricaduta positiva sui salari, perché manca una redistribuzione sostanziale della ricchezza. L’inflazione si contrasta, insomma, comprimendo i salari e lasciando che i prezzi crescano, invece di mantenere la capacità di consumo delle famiglie e dei cittadini. Il nodo della produttività troppo bassa pesa: negli ultimi 15 anni il PIL per ora di lavoro è cresciuto in Italia dell’1,3%, contro il 3,6 della Francia, il 10,5% della Germania e il 15% della Spagna.

La produttività è però direttamente influenzata dall’incapacità delle imprese di investire e di modernizzarsi, dovuta alla scarsa disponibilità di capitali e a una visione poco aperta all’innovazione. Pesa l’indebolimento della manifattura, pesa la tendenza alla delocalizzazione dei processi produttivi, e i progressi continui mostrati dall’istruzione non hanno riscontro adeguato nel lavoro: 2 milioni di lavoratori laureati hanno un inquadramento professionale che non richiede il livello d’istruzione conseguito, rappresentano il 34% del totale e sono in crescita.

Insomma, tutto sembra ruotare intorno al tema dei salari bassi: il livello della povertà è cresciuto a livelli mai toccati negli ultimi 10, anni, col 9,8% degli individui e l’8,5% delle famiglie sotto la soglia di povertà. Il 14% dei minorenni, 1,3 milioni in tutto, sono in condizioni di povertà assoluta, e il dato resta preoccupante fino alle fasce d’età da 18 a 44 anni. Le fasce più anziane resistono meglio, e anche questo è un segno inequivocabile: non sembra un Paese per giovani, sul piano delle opportunità.

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E non è solo una questione di disoccupazione poichè se il dato sull’occupazione migliora, anche se in chiaroscuro, cresce di continuo il fenomeno del lavoro povero, e la soglia di povertà include una larga fetta di lavoratori che non hanno accesso a salari sufficienti al mantenimento proprio e della propria famiglia.

Il reddito di cittadinanza aveva in parte corretto questo andamento, portando un miglioramento sensibile soprattutto al sud (-3,8%) e nelle isole (-3,9%), più forte ancora (5%) nelle famiglie con casa in affitto. Un milione di persone, insomma, è riuscito a rimanere sopra la soglia della povertà grazie al RdC e stupisce, dati alla mano, la campagna di denigrazione della misura che ne ha preceduto la demolizione.

A proposito di reddito insufficiente: un lavoratore su tre delle imprese private extra-agricole ha sperimentato periodi di bassa retribuzione annuale tra il 2015 e il 2022, e il 30% di loro, cioè 4,4 milioni di lavoratori, si colloca nella fascia a bassa retribuzione annuale. Un bollettino di guerra, che contrasta con la narrazione ufficiale legata ai rimbalzi positivi del pil e al livello dell’occupazione che cresce, mentre si allarga a macchia d’olio il disagio economico che riduce consumi, istruzione, accesso alle cure mediche, aumentando i livelli della spesa alimentare, e riducendo la propensione al risparmio, che in passato è stata considerata la grande polizza d’assicurazione di un Paese profondamente indebitato.

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L’incidenza della povertà dei lavoratori dipendenti è aumentata, nell’ultimo decennio, passando dal 5 all’8,2%: avere un reddito da lavoro non protegge, insomma, da povertà e deprivazione. Importante anche l’incidenza del lavoro part-time involontario, che in Italia è del 57,9%, contro il 25,9% della Francia e il 6% della Germania: gente che vorrebbe lavorare di più ma non può. Il grado di soddisfazione della retribuzione tra i lavoratori dipendenti è del 38%, il 31% è soddisfatto delle opportunità di carriera, mentre il 59,3% è soddisfatto del proprio lavoro, soprattutto in relazione alla stabilità, che cresce soprattutto nelle fasce d’età più alte.

Tutti i segnali convergono: la malattia dell’economia italiana sono i salari bassi. Una discesa cominciata 35 anni fa, sostiene l’Ocse, che attesta una diminuzione del potere d’acquisto, in Italia, del 2,9%, dal 1990 in poi, caso unico nell’Unione Europea.

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