Il fallimento della Silicon Valley Bank evoca lo spettro della Lehman Brothers

Di fronte al fallimento della banca della Silicon Valley la memoria ci riporta a quel settembre del 2008, con l’estensione della recessione in Europa e l’ingresso nel dibattito pubblico dello “spread” e della successiva cura Draghi.

Il fallimento della Silicon Valley Bank evoca lo spettro della Lehman Brothers
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Marcello Cecconi Modifica articolo

15 Marzo 2023 - 11.58 Culture


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No, non sarà la stessa cosa. Tutti si affrettano a prevedere che il fallimento del Silicon Valley Bank (Svb) non avrà gli stessi effetti disgreganti che ebbe la crisi a carattere sistemico innescata, nel 2007, dai mutui subprime. Toccò tutti i grandi nomi di Wall Street, con la punta dell’iceberg, nel settembre del 2008, nel fallimento della Lehman Brothers.

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Ma sarà così? Resta il fatto che sono sempre gli Stati Uniti a dettare cambiamenti nelle infrastrutture finanziarie determinanti nell’economia del libero mercato.

Rivisitiamo intanto quel 2008, un anno di cesura fra un prima e un dopo che ha caratterizzato, cambiandolo, l’inizio di questo nuovo millennio. Anni ubriacati da tecnologia e innovazione che parevano percorrere senza ostacoli una storia finanziaria ed economica talmente munita di anticorpi da essere al riparo da depressioni come quella del 1929.

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Come detto, tutto naque dai famosi subprime, prestiti ad altissimo rischio finanziario concessi dalle banche a clienti a forte rischio di insolvenza. Il colosso finanziario Lehman Brothers, con più di centocinquanta anni di storia aveva superato tanti periodi di difficoltà, come l’11 settembre, quando con la caduta della torre del Wtc, aveva visto i suoi uffici ridotti in macerie in pochi istanti. Eppure, nonostante le sue dichiarate difficoltà all’inizio di settembre 2008, nessuno si aspettava il peggio, tutte le agenzie di rating continuavano a darlo per solvibile, too big to fail, troppo grande per fallire, dicevano.

L’arroganza e la sfrontatezza del presidente Dick Fuld, chiamato “il gorilla”, quella volta non servì a risolvere il problema. La Lehman Brothers, quarta banca degli States, venne lasciata al suo destino. Nessun aiuto. Lo decise soprattutto il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, comunicandolo alla banca tramite Cristopher Cox, allora presidente della SEC (Securities and Exchange Commission), ente federale statunitense preposto alla vigilanza delle borse valori.

Fu così che Lehman Brothers dichiarò bancarotta. Era il 15 settembre 2008 e si è applicò il Chapter 11 (la principale norma fallimentare statunitense), quantificato con debiti bancari di 613 miliardi di dollari, debiti obbligazionari di 155 miliardi, oltre a debiti di asset per 639 miliardi. Resta, ad oggi, il più grande crack della storia americana che fece perdere il lavoro a 26mila dipendenti negli Stati Uniti, 6mila in Europa e almeno un centinaio tra Milano e Roma.

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Il giorno del fallimento di Lehman, il Dow Jones lasciò per strada più di 500 punti, scendendo a 10.928,99 punti (oggi ne vale più di 31mila): scomparirono, nell’arco di un giorno, 700 miliardi dai fondi pensionistici e da altri fondi di investimento. Solo nel gruppo Lehman furono colpite oltre 8mila società tra controllate e affiliate, che avevano 600 miliardi di asset e di debiti in mano a 100mila creditori.

Nonostante il mantra “Il nostro sistema è sano. È quello americano che è malato”, sostenuto in Europa soprattutto dalla Germania della Merkel e dalla Francia di Sarkozy, la crisi divenne velocemente una crisi del sistema bancario europeo, con ricadute sulla produzione industriale che dovette rinunciare in gran misura alle esportazioni. La recessione causò una disoccupazione crescente e una caduta verticale del Pil (prodotto interno lordo) in tutti i paesi.

Con il passare dei mesi, la crisi dell’eurozona crebbe, mettendo a repentaglio il sistema euro e solo allora il governo Merkel, con l’acquiescenza di tutti gli altri della zona euro, elaborò un “salvataggio” basato su due principi. Da un lato, il Paese che chiedeva prestiti li avrebbe potuti avere solo in cambio di attuazione in patria di austerità, privatizzazioni e liberalizzazioni del mercato del lavoro; dall’altro, i privati avrebbero dovuto contribuire al salvataggio. Significava che, chi aveva prestato soldi a un’impresa fallita (una banca oppure uno Stato, due termini che nella periferia dell’Europa stavano diventando sempre più interconnessi), avrebbe dovuto partecipare al fallimento sacrificando una parte del suo investimento.

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Accadde così che i grandi investitori internazionali non ebbero più certezza di vedersi rimborsare i loro crediti dai paesi della zona euro e di conseguenza iniziarono a chiedere rendimenti sempre più alti per continuare a mettere i soldi nelle banche o nei titoli di stato dei paesi periferici. Fu qui che entrò nel dibattito pubblico lo “spread”, quella differenza tra il rendimento che gli investitori internazionali chiedevano per acquistare titoli di paesi ritenuti sicuri, come la Germania, e quello che domandavano agli altri paesi ritenuti meno sicuri.

Il primo paese europeo a rischiare con l’aumento dello spread fu la Grecia, nel 2010, e nell’anno successivo anche altri paesi come Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo cominciarono a vedere rialzi pericolosi. Ovviamente, più alto lo spread, più il rendimento dei titoli di stato aumenta e di conseguenza più diventa costoso per un paese rifinanziare il proprio debito. Le soluzioni diventano due: il default o il ricorso ad aiuti internazionali.

Fu durante questo difficile periodo che alla Banca Centrale Europea (Bce) arrivò Mario Draghi e di fronte al peggiorare della crisi, nell’estate del 2012, promise di preservare l’euro, costi quel costi (whatever it takes). Il mercato si sentì rassicurato dalla determinazione di Draghi e, usando le risorse comuni della Bce, gli investitori ricominciarono gli acquisti di titoli di stato anche di paesi poco disciplinati dal punto di vista delle finanze e nel giro di qualche mese la crisi venne mitigata.

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