Il lockdown costerà al mondo quasi 100 milioni di posti di lavoro

Secondo le stime del Fondo "oltre 97,3 milioni di lavoratori, pari a circa il 15% della forza lavoro sono ad alto rischio licenziamento.

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12 Giugno 2020 - 20.08


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Il lockdown per contrastare il Covid potrebbe mettere a rischio quasi 100 milioni di posti di lavoro a livello globale e rappresentare il de profundis per alcuni servizi legati alla vendita al dettaglio o al turismo. E’ quanto emerge da un paper del Fmi. Secondo le stime del Fondo “oltre 97,3 milioni di lavoratori, pari a circa il 15% della forza lavoro sono ad alto rischio licenziamento o mancato rinnovo nei 35 Paesi avanzati ed emergenti” esaminati nel paper. 

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E questo perché “i blocchi imposti in tutto il mondo per contenere il contagio stanno avendo un impatto diversificato sull’attività economica e sui posti di lavoro”, avvantaggiando i lavori che possono essere svolti a remoto rispetto a quelli che richiedono l’interazione faccia a faccia, si legge nel paper.

Per gli autori dello studio infatti il lavoratore ‘smart’ in genere tende ad avere un identikit preciso: giovane, non laureato, con contratti precari il che suggerisce che la crisi del coronavirus “potrebbe esacerbare le disuguaglianze,” visto che l’eterogeneità tra Paesi nelle capacità a lavorare da remoto riflettono il differenziale di accesso alla tecnologia. Da qui la necessità che la politica tenga “conto di queste valutazioni demografiche e distributive sia durante la crisi che dopo”.

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D’altra parte “l’evidenza delle crisi del passato suggerisce che le perdite di posti di lavoro durante recessioni gravi possono avere effetti prolungati e negativi su salari e sicurezza lavorativa”. L’impatto del Covid di conseguenza ridisegnerà l’offerta dei servizi.

“Il  cambiamento delle preferenze dei consumatori che si affidano maggiormente all’e-commerce e hanno modificato le preferenze per  beni e servizi potrebbe anche avere un significativo impatto futuro sulle prospettive occupazionali e sul modo in cui viene svolto il lavoro” e questo perché “una quota significativa di domanda per servizi al dettaglio, turismo, ristorazione e servizi personali ai quali si è rinunciato durante la crisi potrebbero non tornare mai più”, conclude il Paper. 

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