Padre Ripamonti sul Primo Maggio: "Penso ai rider, lavoratori socialmente invisibili"
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Padre Ripamonti sul Primo Maggio: "Penso ai rider, lavoratori socialmente invisibili"

Il gesuita direttore del Centro Astalli: "Molti di loro hanno un permesso per motivi umanitari e venivano alla nostra mensa. Ma i problemi del lavoro sono tanti, come il caporalato"

Padre Camillo Ripamonti, direttore del Centro Astalli
Padre Camillo Ripamonti, direttore del Centro Astalli
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

1 Maggio 2020 - 15.13


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Primo Maggio. E’ evidente che la festa dei lavoratori quest’anno cada in un momento drammatico per quasi tutti, lavoratori a cavallo tra una drammatica sospensione della loro attività lavorativa, sperando di non perderla, e un’incerta ripresa. Non è così per i rider alimentari.  Loro non hanno mai smesso di pedalare, portando dietro di sé un zaino semirigido nel quale inseriscono pizze, birre, o altri piatti cucinati e altre bevande. L’Italia è sopravvissuta anche grazie a loro, e alle loro biciclette. Un lavoro faticoso, come quelli di cui parlava il famoso quadro di  Giuseppe Pellizza da Volpedo.  Se si cercano notizie su di loro non è difficile imbattersi in siti che indicano i loro doveri per la sicurezza stradale, o quella alimentare, con norme per le segnalazione fosforescente o per igienizzare i contenitori, sigillarli, oltre ad assicurarne la tenuta termica. Ma hanno ricevuto dal datore di lavoro mascherine, guanti, disinfettanti?

Prima della pandemia si è occupata di loro, o per meglio dire di chi li sfrutta, la Procura di Milano. E siccome già al tempo erano più di 20mila sarebbe importante sapere se le ipotesi di sfruttamento ci siano ancora oggi o siano intervenuti cambiamenti. Sono quasi tutti immigrati. Di sicuro devono pagare alle piattaforme che li reclutano 65 euro per la bicicletta e la borsa termica. Ma la domanda che questo Primo Maggio impone e che ha poche risposte è soprattutto questa: chi sono? Quale storia di vita compongono le loro storie? Sappiamo tanto della vita di coloro che hanno avuto bisogno di loro, ma dei rider alimentari, della loro quotidianità, cosa sappiamo?  Ma soprattutto è importante capire, tra tante discussioni sulla pericolosità degli immigrati, se l’utilità dei rider alimentari ci ha insegnato qualcosa. Li riconosciamo? Ma parlarne è difficile: chi li conosce?

Nonostante l’importanza del ruolo sociale svolto durante la pandemia nessuno li intervista, nessuno ci dice che vita facciano, cosa desiderino, se e come siano inseriti nel tessuto sociale italiano. Eppure il virus metteva, mette a rischio anche loro mentre portano e poi consegnano cibi pronti, così importanti nell’affrontare questa fase. A volte però sono state le multe a metterli a rischio, nonostante svolgessero una funzione sociale tanto rischiosa quanto preziosa e non particolarmente remunerata. Se dunque è certamente esagerato definire questo Primo Maggio come il loro giorno, questo Primo Maggio è certamente anche loro. Ma appartengono a “questa comunità”? O le loro sono storie rimosse?

Qui a Roma tra i pochi che li ricordano, e li ringraziano, c’è padre Camillo Ripamonti, il giovane gesuita che dirige il Centro Astalli, la sede italiana del Jesuit Refugee Service.

La sua organizzazione è tra le prime firmatarie della campagna “Ero straniero”, che in questi giorni ha diffuso un appello che comincia così: “In questi giorni si sono ripetuti numerosi appelli rivolti al governo per un provvedimento straordinario di regolarizzazione. Organizzazioni della società civile, accademici, sindacati, categorie produttive e rappresentanti del mondo politico chiedono di occuparsi finalmente dei tanti cittadini stranieri invisibili presenti nel nostro Paese dando loro la possibilità di vivere e lavorare legalmente, andando a colpire marginalità sociale, lavoro sommerso e sfruttamento lavorativo e aumentando le entrate per lo Stato. Per una maggiore sicurezza sanitaria e sociale, quindi, e per una reale tutela dei diritti di tutti.” Tra i diritti da tutelare ci sono anche quelli dei rider.
Padre Ripamonti, lei ne ha conosciuti lì al Centro Astalli? Li ricorda?

“Certo che li ricordo. Venivano spesso alcuni rider a mensa da noi, a Via degli Astalli. Adesso sono spariti, come tanti altri nostri ospiti abituali. La città cambia, mai come oggi è evidente a tutti che le  mappe urbane cambiano, non sono sempre le stesse. La chiusura di tutti i bar, di tutti i ristoranti, dei negozi, di tanti uffici, la scomparsa dei turisti, la scarsità dei residenti, sono tutti elementi decisivi per cambiare le abitudini di tanti invisibili. E i rider rimangono socialmente invisibili anche mentre attraversano queste città deserte. Oggi solo la metà degli ospiti fissi che venivano a mensa da noi ci frequentano ancora. Entrano altre figure. Noi ci occuperemmo di rifugiati  e richiedenti asilo, ma in queste condizioni certo non si può chiudere la porta a nessuno. Facciamo pasti da asporto, ovviamente, ma lo vediamo che gli utenti abituali della nostra mensa sono diminuiti  e i nuovi che arrivano esprimono tante realtà che prima avevano altre abitudini, seguivano altri percorsi. I senza dimora ad esempio: chi viveva di elemosine oggi ha un problema aggiuntivo, enorme; non sapere a chi chiederla quell’elemosina. Questo problema è evidente e si aggiunge  ai soliti, vecchi problemi con i quali i senza fissa dimora si confrontano, chi da tanto tempo chi da meno. E poi per la prima volta ci sono gli italiani, sempre più numerosi. Oggi saranno il 20, 25% di quelli che si rivolgono a noi. Evidentemente Caritas, Sant’Egidio ed altre organizzazione che lavorano  da sempre anche con loro, con i nuovi poveri, non possono bastare.”

Dunque i rider al Centro Astalli non ci vengono più?

“No. Da quando è cominciato il lockdown non li vedo più. Il centro storico per loro non deve essere più un luogo di transito lavorativo. Qui infatti non ci sono ristoranti in funzione per preparare cibo cucinato da asporto. Immagino che si siano trasferiti in quartieri più popolosi.”

Lei li ricorda? Sa dirci qualcosa di loro?

“Li ricordo bene, certo. In maggioranza giovani ovviamente, li ricordo soprattutto come ragazzi arrivati in Italia dall’Africa sub sahariana e dall’Afghanistan. La maggior parte di loro aveva un permesso di soggiorno per motivi umanitari. I percorsi lavorativi per chi aveva o chiedeva lo status di rifugiato è diverso, si riusciva a formarli e quindi il lavoretto si poteva trovare. Camerieri, pulizie o portinerie d’albergo, le vie d’accesso a un mercato del lavoro che poi poteva portarli anche altrove erano tante. Con la crisi dei settori lavorativi dove si sono prioritariamente inseriti, ristorazione e turismo, avranno compromesso  quel che avevano costruito. 

Mi ricordo quelle volte che incontravo questi giovani rider mentre legavano le loro biciclette e scendevano a mensa. Per loro la mensa era importante anche perché gli consentivamo di mettere in carica in telefonino e così quel filo che li univa al loro mondo, fatto probabilmente di parenti  lontani, restava in funzione. Tante volte ho avvicinato qualcuno di loro, qualche volta per chiedergli con tono scherzoso, “ma tu vieni a mangiare o prendi il cibo per metterlo nella sacca e poi…” Mi guardavano divertiti, ridevano. Così con loro si è creato un rapporto personale, e parlando si è arrivati anche alle questioni lavorative ovviamente, ma non sono mai riuscito a capire come funzioni il loro sistema, quel mercato del lavoro. So che ci sono delle agenzie, ma non ho mai capito bene come funzionino. Certo il contratto è importante, perché ora il permesso per ragioni umanitarie non c’è più e molti di loro non avendolo potuto rinnovare saranno ancora qui grazie al contratto da rider. Ma se scade? Se non gli viene rinnovato? O trovano subito un nuovo contratto o il rischio è quello di entrare in un’area grigia, che poi…”

Ha un’idea di quanto guadagnino?

“ Ricordo che parlando con loro alcuni mi hanno detto che alle volte si riusciva ad arrivare a paghe che definivano elevate; 600, magari 700 euro al mese. Allora nessuno mi ha parlato di cifre più elevante, per i periodi di grassa, diciamo. Parliamo di un lavoro che sovente ti impegna per tutto il giorno… Con quelle biciclette che legavano con un’attenzione da certosini, e il telefonino che correvano a mettere in carica, quasi fosse il custode di tutto il loro universo affettivo.”

Non ritiene che siano un pezzo di questo Primo Maggio in chiaroscuro?

“Sono tanti i pezzi da montare e che non vediamo in questo Primo Maggio che lei chiama “in chiaroscuro”. Il caporalato esiste, con la pandemia e la proibizione dei movimenti molto è cambiato e vediamo che si comincia a parlare di problemi nelle raccolte, dei pomodori o di altro genere. Mi ricordo benissimo un nostro amico, lui aveva lo status di rifugiato; mi è rimasto impresso nella memoria il giorno in cui mi disse che partiva per raccogliere l’uva, al nord. E’ un fatto comune, capitava frequentemente, ma il suo sguardo quando uscì prima di quel nuovo trasferimento mi colpì… Forse perché mi parlò delle terre da dove vengo io (padre Ripamonti è brianzolo, ndr). Ma tanti nostri amici sono partiti in modo completamente diverso da quello. Chi entra nelle zone grigie sa da dove viene ma non sa dove finisce. Ci sono tanti sfruttamenti, il crimine organizzato. La regolarizzazione è un’urgenza assoluta, sono contento che sia finalmente  d’attualità, ma deve essere ampia, non può limitarsi ad alcuni comparti. E’ terribile pensare quanto siamo in ritardo. Solo con la regolarizzazione ci può essere una soluzione ordinata e decente, che non rafforzi i vari volti del malaffare e rispetti standard minimi di umanità. La regolarizzazione ad esempio ti riconosce il diritto all’assistenza sanitaria: certo, anche chi non è in regola ha la possibilità di ottenere il tesserino per gli stranieri temporaneamente presenti, che copre le cure essenziali e urgenti: ma oggi la piena questione salute è più chiara in tutta la sua centralità. Si è perso tantissimo tempo, non si è andati avanti su questo e certo la pandemia ci dimostra che se fossero stati regolarizzati prima certi ambienti non sarebbero un pericolo sanitario.”

 

Gli invisibili che riempiono il Centro Astalli non si sentono mentre padre Ripamonti risponde alla nostra telefonata. Ma si sente che la sua attenzione è concentrata non sul silenzio delle strade romane, ma dall’eterna emergenza che si svolge in un altro silenzio, quello del mare e che la strage di Pasquetta ha dimostrato pieno di menzogne che si rincorrono tra Tripoli e La Valletta. Ripamonti prova a spiegare la farraginosa complicazione del meccanismo di sbarco “viralmente garantito” nel nostro Paese: si prevedono navi per la quarantena, “ma – sottolinea- a Lampedusa non le hanno mai viste arrivare”. E’ l’ora di salutarsi. Il Centro Astalli non è mai stato un ambiente rumoroso, i suoi amici non sono mai stati chiassosi. Oggi poi possono solo prendere il sacchetto da asporto e andar via. Così salutandolo è facile pensare ai rider in bicicletta  come  lavoratori che rispettano la caratteristica dell’oggi: il silenzio.

     

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