Totò l'immortale: il principe della risata resta sempre lui

Nato il 15 febbraio del 1898 e morto il 15 aprile 1967 il mito di Antonio De Curtis resta immenso

Totò l'immortale: il principe della risata resta sempre lui
Antonio De Curtis, in arte Totò
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15 Aprile 2024 - 02.25


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Alla fine ‘a livella per lui non ha funzionato. Principe era e principe è rimasto. Perché, d’altronde, signori si nasce.
Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfiro – genito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, più romanticamente Totò, non ha mai smesso di farci sentire la sua presenza. Non lo ha fatto la sua maschera da Charlot partenopeo, emblema sorridente e triste del sottoproletariato urbano in un’Italia schiacciata ma viva, e non lo ha fatto l’uomo, nostalgico e fragile, che con la maschera aveva poco o niente a che fare. Perché sono sempre esistiti un Totò e un Antonio De Curtis. E per entrambi non si può che avere, parafrasando una sua canzone, “soltanto una parola: amore e niente più”.

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Non è elegante farne una questione di numeri, ma: 97 film spalmati nell’arco di trent’anni, al ritmo di oltre tre all’anno, lavorando con 42 registi diversi. E questo soltanto per quel che riguarda il cinema: dal 1928 al 1957 il Principe della risata ha preso parte a oltre 40 spettacoli tra commedie e pièce di avanspettacolo e a 12 grandi opere di rivista tra i Quaranta e i Cinquanta. Antonio De Curtis è stato però anche drammaturgo, autore di poesie e di canzoni: tra queste spiccano senza dubbio ‘A Livella e Malafemmena.


In un’Italia, quella del Dopoguerra, in cui il cinema si apre al dialetto, va in scena la “rivoluzione del linguaggio” incarnata dalla voce di Totò. Inizialmente il napoletano, sempre comprensibile e pensato per essere digerito in tutto lo Stivale, rappresenta però il persistere di un’Italia arcaica, che continua ad arrangiarsi come può. Ma il genio, si sa, non lo puoi governare: la carica innovatrice di Totò trascina dietro sé anche il cinema nostrano. Ed ecco dunque comparire sul grande schermo varie forme di bilinguismo, che negli Anni Cinquanta danno vita a invenzioni maccheroniche di lingue straniere rimaste impresse nell’albo d’oro del made in Italy.

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Dalla Francia (“Noblesse oblige, la nobiltà è obbligatoria” dice il barone Antonio Peletti di 47 morto che parla) alla Spagna (“Dunque per dire ti voglio, ti bramo, come si dice?”, “Te chiedo”, “No, te quiero, come bicchiero, carabinero”), dal latino (“Castigat ridendo mores, ridendo castigo i mori” in Totò Sceicco) al finto portoghese (“Sai come si dice in portoghese? Il tempo è moneta: The time is scudos”). E ancora, gli stravolgimenti divenuti cult (“Parli come bada”, “Ho una colica apatica”, “Ogni limite ha una pazienza”) e le scenette indimenticabili come quella della lettera scritta a quattro mani con Peppino De Filippo firmata “I fratelli Caponi, che siamo noi; apri una parente e dici: che siamo noi”.


Totò è l’Italia, certo, ma è soprattutto Napoli. Eduardo De Filippo, altro mostro sacro partenopeo e compagno artistico di Totò, scriveva: “Napule è ‘nu paese curioso: è ‘nu teatro antico, sempre apierto. Ce nasce gente ca senza cuncierto, scenne p’ ‘e strate e sape recita’”. Ecco, l’arte di Totò, l’arte della maschera di Totò, della Commedia dell’Arte, di Felice Sciosciammocca, di Viviani, di Di Giacomo, dei lazzi e dei canovacci è tutta qui. Non a caso gli esordi in teatro si recitavano a soggetto, puntando sull’improvvisazione. Quando veste i panni di Aristide Tromboni, direttore dell’omonima compagnia di guitti nel film del 1945 Il ratto delle Sabine, Totò rende forse il suo più grande omaggio ai comici dell’arte e al teatro di rivista dal quale stava per prendere congedo per dedicarsi appieno alla Settima Arte.


Ma l’abitudine di mettere a nudo i mali e i vizi dell’italiano, che ieri sfilava nei sabati fascisti e oggi è un semplice signor nessuno, Totò l’ha inaugurata già tra le due Guerre, negli spettacoli di Galdieri. La denuncia è servita. Il Pinocchio-Mussolini di Salomè (1944) si rivolge così a Salomè-Italia, confessando il suo affetto con rime d’altri tempi: “Se mi volevi bene in quei momenti, non mi dovevi fare monumenti; la cartolina rossa di adunata dovevi rimandarmela stracciata; quand’io pontificavo dal balcone, dovevi farmi almeno un pernacchione”. I personaggi portati alla ribalta dall’attore hanno alle spalle secoli di invenzioni, gesti e trucchi nati con la Commedia dell’Arte nel Rinascimento con uno scopo: contrastare la fame.

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Lo stesso Totò non ha mai provato a nasconderlo: “La mia è una fame atavica, provengo da una famiglia di morti di fame”. Con l’avvento dello star system le cose sono cambiate, ma per centinaia di anni lo stomaco vuoto è stato il tratto caratteristico dell’attore, sempre squattrinato e vagabondo. Quella fame è stata però anche la molla creativa che ha lanciato in Italia un certo tipo di teatro che oggi definiremmo d’avanguardia. La fame dello Zanni, una delle maschere della Commedia dell’Arte, è la stessa che anima Pulcinella e il Felice Sciosciammocca di Miseria e nobiltà mentre arraffa con le mani gli spaghetti in una delle scene più iconiche del cinema italiano. Ed è la stessa che spinge all’azione i personaggi interpretati da Totò, costantemente in fuga dalle vessazioni di una società e una storia che continuano a esaltare la gerarchia, il potere burocratico, il caporalato. Ogni riferimento al titolo di un suo celebre film non è affatto casuale (Siamo uomini o caporali, 1955).


Totò, considerato in vita come un fenomeno di culto essenzialmente locale, ha goduto di un processo di beatificazione postuma che lo ha (in parte) risarcito del lungo periodo di quarantena e del senso di superiorità della critica nei suoi confronti. Da sempre definito un comico, il Principe ha però dimostrato di poter interpretare qualunque altro ruolo in qualunque altro registro. E lo ha fatto con una delle personalità più controverse del nostro cinema: Pier Paolo Pasolini.


“La mia ambizione era proprio quella di strappare Totò al codice, al comportamento dell’infimo borghese italiano. Per questo gli ho tolto tutto il suo fare sberleffi alle spalle degli altri. Il mio Totò è quasi tenero e indifeso, è sempre pieno di dolcezza, di povertà fisica, non fa le boccacce dietro a nessuno”. Questo diceva il regista bolognese del “suo Totò” nel 1976, nove anni dopo il passaggio del principe ad altra dimensione. La maschera irriverente del comico era stata fatta a pezzi e ricostruita, il suo sorriso sornione era diventato amaro e ironico, contrapposto a quello esplosivo e popolano di Ninetto Davoli. Da Uccellacci e uccellini fino alle due favole Che cosa sono le nuvole? e La Terra vista dalla Luna, Totò ha regalato al mondo il suo ultimo sorriso triste. La sua carriera, come la sua vita, era agli sgoccioli. E lui lo sapeva, lo sentiva. La malattia agli occhi ormai lo aveva reso quasi cieco, ma non gli impedì di guardarsi indietro e, sì, stavolta di sorridere felice. Come sapeva fare solo lui e come, in fondo, tutti gli italiani volevano vedergli fare.

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“Cafie’, non ti nascondo che stasera mi sento una vera schifezza”.

Le parole sono state pronunciate da Totò la sera del 13 aprile 1967 al suo autista, Carlo Cafiero. Furono anche le ultime della sua vita fuori dal letto di casa sua. Il giorno successivo tremore, sudore e dolori fecero stringere intorno a lui la sua famiglia e il cardiologo Guidotti. Tutti, compreso lui, avevano capito: “Professo’, lasciatemi morire in pace, fatelo per la stima che vi porto”. Alle tre e trenta di notte del 15 aprile Antonio De Curtis si spegneva nella sua casa di Roma, in via dei Monti Parioli 4. Secondo la figlia Liliana, le sue ultime parole furono: “Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano”, mentre a Franca Faldini, compagna di vita, disse: “T’aggio voluto bene Franca, proprio assai”.


In vita Antonio De Curtis aveva sempre ribadito di volere un funerale semplice, nella sua Napoli. Poco prima di spirare riuscì perfino a consegnare al suo cugino e segretario Eduardo Clemente 120mila lire per finanziare le esequie. Ma il dolore dei suoi (innumerevoli) ammiratori era talmente grande da non poter essere contenuto in una sola cerimonia. I funerali alla fine furono tre. Il primo si svolse nella Capitale, con duemila persone ad accompagnarlo nella Chiesa di Sant’Eugenio. Le successive esequie furono a Napoli: nella basilica del Carmine Maggiore ad attenderlo c’erano circa tremila persone, mentre (almeno) altre centomila erano raccolte nella piazza antistante. Un oceano di gente, letteralmente. Il terzo funerale lo volle organizzare un capoguappo, tale “Naso ‘e cane”, del Rione Sanità, il quartiere di Totò: la cerimonia si tenne il 22 maggio.

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“E’ più difficile far ridere che far piangere”, aveva sempre sostenuto in vita. Sta anche qui l’ultimo miracolo di Totò: far piangere una nazione intera per la morte del principe della risata.

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