Sceicco bianco, vitellone e marchese: quanto ci manca Alberto Sordi

Il ricordo di Alberto Sordi rimane indelebile nella memoria di tutti gli italiani.

Sceicco bianco, vitellone e marchese: quanto ci manca Alberto Sordi
Alberto Sordi
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Giancarlo Governi Modifica articolo

25 Febbraio 2024 - 01.32


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di Giancarlo Governi

Alberto Sordi ci ha lasciato da molti anni. Ma il suo ricordo rimane indelebile nella memoria di tutti gli italiani. Come rimane indelebile il ricordo di quel 15 giugno del 2000 quando il Sindaco di Roma Francesco Rutelli si tolse la fascia tricolore e per un giorno la affidò proprio a lui, ad Alberto, che compiva 80 anni. Quasi a sottolineare il fatto che Roma era proprio lui, era questo geniale attore, questo straordinario personaggio che, come dice Furio Scarpelli, aveva saputo monumentalizzare il suo essere romano.

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Essere (sentirsi) romani significa dare del tu alla storia, avere familiarità con i grandi monumenti e le opere d’arte uniche al mondo. Significa convivere con Michelangelo, con Bernini, con Raffaello, con Caravaggio… Significa avere familiarità con il Colosseo e con San Pietro. Significa pensare che il Papa, anche il Papa polacco o il Papa tedesco, è anche lui romano, come noi. Ed è fedele allo spirito di Roma, che, come suggerisce il nome stesso letto al contrario, vuol dire Amor.


Alberto in quella occasione volle ricordare a tutti i romani che il rovesciamento della parola Roma vuol dire Amore e quindi rispetto. Rispetto per una città da amare ma anche da trattare con delicatezza e in punta di piedi.
Anzi, a un certo punto, quando si sedette al tavolo del Sindaco con tutta la giunta comunale schierata davanti, Alberto disse a Rutelli: Come si fa a fare una delibera? Dici al direttore generale qui presente che cosa vuoi deliberare e lui te la scrive secondo le leggi e il regolamento comunale. Allora Alberto, rivolto al direttore, disse: “Scriva direttore: da oggi chiusura al traffico di tutto il centro storico”. Tutti si misero a ridere ma Alberto, se avesse potuto lo avrebbe fatto sul serio.

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Quando l’ho visto per l’ultima volta in Campidoglio, ricomposto nella bara, ho pensato a tutta la sua vita che si è svolta in un grande palcoscenico, il palcoscenico della sua Roma che si è allargato a tutta l’Italia. Ho pensato a quegli inizi frenetici, a quella sua voglia di esibirsi fin da bambino, a quel debutto in una compagnia di avanspettacolo (a 16 anni), alla voce di Oliver Hardy e via via l’ingresso nel cinema prima come comparsa, poi in posizioni sempre più importanti fino alla conquista del ruolo principale, quello del protagonista. Un ruolo sudato, conquistato a oltre trenta anni, dopo tanto lavoro e tanta esperienza. Un ruolo conquistato contro i produttori che non credevano in lui ma che, anzi, lo ritenevano deleterio per il film con la sua stessa presenza. Come fecero i produttori de I vitelloni, a cui Alberto partecipò, per l’impuntatura del suo amico Federico Fellini. Ma la condizione fu che il nome di Alberto non sarebbe dovuto apparire sui manifesti. Fu il grande successo del film e del personaggio interpretato da lui, che costrinse i produttori a staccare i manifesti dai muri e a ristamparli con il nome di Alberto in bella evidenza, perché il successo al film lo aveva dato anche lui con il famoso gesto dell’ombrello rivolto ai “lavoratori della malta!”


I Vitelloni fu l’inizio di una corsa che soltanto la vecchiaia rallentò. un personaggio dietro l’altro che appagava la sua straordinaria voglia di raccontare i suoi italiani, di metterli alla berlina, di togliergli la pelle. E ogni volta era un atto di amore alla sua Italia.


Fra Federico Fellini e Alberto Sordi ci fu una grande amicizia. I due, giovanissimi, divisero le loro amarezze e la loro gioia di vivere. Insieme avevano terrorizzato Roma con i loro scherzi al telefono. Scherzi che spesso Federico ideava e Alberto realizzava con la sua straordinaria capacità di fare tutte le voci. La voce che gli veniva meglio era quella di Amedeo Nazzari. Una volta aveva preso a telefonare a tutti gli attori più importanti, a cominciare da Vittorio De Sica, con la voce di Nazzari. “Vittorio sono rovinato – diceva – non ho più una lira…” Tutta Roma parlava del povero Nazzari in rovina. Ma quando Nazzari venne a sapere che De Sica stava raccogliendo soldi per venirgli in soccorso, ovviamente andò su tutte le furie e fece una denuncia contro ignoti.
Con De Sica il rapporto fu subito di grande affetto. Si conobbero alle stanze dell’Eliseo, un ristorante annesso al famoso teatro romano, che Alberto frequentava con la sua compagna Andreina Pagnani, una grande attrice del teatro italiano. Tra gli avventori c’era un colonnello di cavalleria che parlava con la sua voce stentorea, tessendo le doti del cavallo italiano. Alberto a un certo punto si alzò, si impettì sull’attenti e cominciò a urlare: “Colonnello Biasetti che cosa ne pensa dei nostri gloriosi alpini…mi sun alpin e me piace il vin e la barbera e il grignulin…”
De Sica sorpreso esclamò: “Ma chi è questo pazzo portatemelo subito qui…”

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A De Sica Sordi deve Mamma mia che impressione il primo film da protagonista, un film da lui prodotto e, nella sostanza anche di retto, anche se firmato da altri.


A proposito di questo film, Sordi racconta un aneddoto che vale la pena ricordare, perché dimostra quanto mestiere e quanta spregiudicatezza metteva De Sica nel suo lavoro. Andarono a girare in un campetto sportivo di un piccolo oratorio e alla fine delle riprese la produzione diede al prete dieci lire di obolo, e quello si arrabbiò. “Dieci lire, dieci milioni mi dovete dare, perché voi del cinema guadagnate miliardi”. De Sica si mise a litigare con il prete: “Dieci milioni, ma si vergogni padre!”. E se ne andò. A un certo punto qualcuno si ricordò che non avevano girato una inquadratura fondamentale. Allora De Sica mandò il segretario di produzione dal prete: “Digli che ci abbiamo ripensato e che siamo disposti a dargli i dieci milioni”. Girarono la scena, poi risalirono sui mezzi di produzione e al prete che gli correva dietro, De Sica gridò : “Ritorneremo, non si preoccupi, per i suoi dieci milioni, stiamo andando in banca a prenderli”.


Alberto Sordi parlava di De Sica con molto affetto filiale. Si capiva che Vittorio De Sica è un persona che ha amato e ammirato ma è anche una persona con cui ha riso tanto, con la quale ha avuto un rapporto cameratesco di grande complicità quasi goliardica. De Sica era, insomma, per Sordi una persona che metteva allegria e che, per questo, poteva diventare il bersaglio affettuoso dei suoi proverbiali scherzi. Alberto aveva preso l’abitudine, quando camminavamo fianco a fianco, di dargli sulle spalle delle piccole spinte con la mano, per gioco. E lui rispondeva invariabilmente : “E daje Alberto, nun me spigne, è tutta la vita che me spigni”. Un giorno c’era la cerimonia di inaugurazione dello stabilimento della De Laurentiis e il presidente Fanfani era venuto a mettere la prima pietra. De Sica era piazzato proprio dietro di lui. Allora Alberto non resistette e gli diede una spinta, forte. De Sica perse l’equilibrio e il suo gran corpo andò a cadere sopra il piccolo Amintore che mise tutte e due le mani nella calce.. Ci fu un momento di gelo. Ma De Sica rialzandosi ed aiutando il presidente a rimettersi in piedi, gridò verso Sordi : “è stato lui, è stato lui! Mi sta sempre a spigne. È tutta una vita che me spigne costui!”
Ma lo scherzo più bello, tra i tanti, ed anche più audace, lo fece ai suoi amici Gino Cervi e Andreina Pagnani.

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Una sera si recò a salutarli al Teatro Eliseo dove recitavano una commedia di Aldo De Benedetti. La scena rappresentava una casa vuota, appena costruita, che tutti e due volevano affittare. Alberto si era messo a guardare da una quinta, in attesa che finisse la commedia. Ad un certo punto Cervi lo scorse e gli fece un segno di saluto con la mano. Alberto non ci pensò due volte: entrò in scena, si presentò (a Cervi, perché la Pagnani era scappata subito spaventata) e disse: “Sono stato chiuso qui per tre giorni perché il muratore mi aveva murato dentro per errore. Ora, grazie a voi posso finalmente uscire e raggiungere la mia famiglia che sarà certamente in pensiero”. Strinse la mano a Cervi sbalordito ed uscì. Il pubblico non capì, ma pensò forse che la sua strampalata apparizione fosse prevista dal copione.


Durante la mia visita in Campidoglio (ero un privilegiato, perché ero stato esentato dalla fila e avevo la possibilità di trattenermi quanto volevo) ho potuto osservare questa moltitudine di romani e di italiani che si sobbarcava ad una attesa di ore, anche nella fredda notte romana, per passargli davanti per pochi secondi, per lasciargli un fiore, un disegno, una lettera, la foto dei figli (un bambino gli ha lasciato un Puffo…), una cosa cara come la sciarpa della propria squadra. Davanti alla bara erano prevalenti le sciarpe giallorosse, in quanto Alberto era romanista, ma non mancavano quelle biancocelesti della Lazio, e quelle della Juventus e dell’Inter. A un certo punto è arrivato un uomo con la sciarpa del Cagliari al collo. Si è fatto il segno della croce, ha chinato la testa poi si è tolto la sciarpa e l’ha deposta ai piedi della bara, nel mucchio degli omaggi. L’ho avvicinato, curioso di conoscerlo. Mi ha parlato con il tipico accento della sua isola e mi ha detto che era partito dalla Sardegna apposta per portare il suo omaggio ad Alberto.


Ho ripensato alle serate passate con lui, con gli amici importanti ma anche con la gente semplice che lo amava e che lui riamava. Perché Alberto amava la gente con cui comunicava quasi con avidità. Alberto era sempre Alberto anche nella vita privata. Quando qualcuno mi chiedeva “come è Alberto Sordi nella vita?” io gli rispondevo: “Così come lo hai conosciuto al cinema”. Sempre allegro, con un cervello sempre in movimento, per cogliere un momento ridicolo, per prendere al volo una battuta fulminante. Mi è capitato anche di vederlo insieme ad amici comici. Ebbene la scena era sempre la sua, con gli altri a fare da spettatori divertiti, e con Monica Vitti a incalzarlo: “dai Alberto, racconta di quella volta…”.

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Ho ripensato alla sua vita privata e discreta, condotta da vero cristiano che segue il dettato del Vangelo: “non sappia la sinistra quello che fa la destra”. E la “sinistra” non seppe mai della sua opera benefica, della sua grande generosità. Lui pubblicamente passava per avaro anzi era l’Avaro per eccellenza, quello con la a maiuscola. Fu con questo argomento che lo convinsi ad interpretare l’Avaro di Molière. Tonino Cervi, il regista, mi disse che Alberto aveva molti dubbi. Io andai a trovarlo e cominciai a dirgli che alla sua età (aveva una settantina di anni) doveva dedicarsi ai classici, che in fin dei conti lui era il Molière del nostro tempo e via di seguito. Alberto mi stette un po’ a sentire poi tagliò corto: “tu vuoi che io faccia l’Avaro, perché alludi?” disse. “Certo che alludo, e già vedo il manifesto del film che dice: Alberto Sordi è l’Avaro di Molière!”. E lui di rimando: “E allora perché non lo fai fare a un mio collega (fece nome e cognome ma io non lo riferirò) che è certamente più avaro di me?”. E io di rimando: “ma lui è soltanto un volgare tirchio!”. Accettò è fece un film bellissimo. Lui in pubblico giocava con questa sua fama di avaro, mentre soltanto pochi amici sapevano di quello che faceva per gli anziani, per i bambini abbandonati, per i portatori di handicap.

Alberto passava per avaro, perché lui lo aveva sollecitato con il suo comportamento. Una volta gliene chiesi il perché. Lui mi rispose: “Vedi, io sono stato arricchito dalla povera gente che faceva sacrifici per venire a vedere i miei film, per questo mi sarebbe sembrato di offenderli se avessi ostentato la mia ricchezza”. Fu così che nella sua villa non si fecero mai feste hollywoodiane, fu per questo che Alberto non possedette mai una barca, fu per questo che la sua automobile fu sempre quella media, dell’italiano medio. La sua ultima macchina è stata una Fiat Punto. Sarà avaro, dissero quelli che erano abituati a dissipare ricchezze e non capivano le sue nobili motivazioni morali. E avaro è stato fino all’ultimo, fino a quando, dopo la sua morte, non è stata svelata la verità che pochi amici, vincolati dallo stretto segreto, conoscevano.


Ho ripensato alla sua vita discreta dedicata al lavoro e segnata dalla rinuncia ad una famiglia propria con figli che portano il tuo nome e che danno continuità alla vita. Gli chiesi i motivi. E lui mi disse che di figli ne aveva fatti tanti ed erano i suoi film. Questi film-figli Alberto li custodiva gelosamente (conservava tutte le copie cinematografiche, i copioni, le foto di scena, i ritagli dei giornali, talvolta anche il costume) e li amava con eguale passione. Se gli chiedevi quale fosse il suo film preferito rispondeva immancabilmente che un padre ama i propri figli con lo stesso affetto, quelli che hanno fatto una buona riuscita come quelli che sono riusciti meno bene. Però di alcuni dei suoi film parlava con maggiore trasporto. Ora che lui non c’è più lo possiamo dire: tra i suoi film preferiti c’erano La grande guerra, Tutti a casa, Una vita difficile, Polvere di stelle, Fumo di Londra, Un americano a Roma, Bello, onesto, emigrato Australia, Il vigile, Il mafioso, il profetico Finché c’è guerra c’è speranza, Amore mio aiutami.

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I suoi preferiti erano insomma i film che hanno raccontato il nostro Paese, quelli che hanno raccontato l’italiano nei momenti cruciali della sua storia, dalla devastazione della guerra, alla ricostruzione, con le speranze e le aspirazioni per una vita migliore che si andavano realizzando, fino al miracolo economico quando gli italiani scoprirono il benessere, fino alla crisi. Negli ultimi anni Alberto non trovò più ispirazione in questa Italia molle, smemorata e massificata e sommersa nel benessere e nel consumismo fino a perdere ogni identità nazionale, in preda a una “cupio dissolvi” che ci lascia sbigottiti. E non a caso il suo ultimo film bello è Nestore, dedicato al dramma della vecchiaia.


Ne parlo con tanta confidenza perché ho avuto la fortuna di essergli stato amico per un quarto di secolo, grazie alla realizzazione di una straordinario programma televisivo che si chiamava Storia di un italiano e negli anni ho avuto la possibilità di vedere l’affetto con cui era accolto in tutta Italia e in tutto il mondo. A Milano era, se possibile, più popolare che a Roma, perché a Roma era uno di famiglia che si vede tutti i giorni mentre a Milano era come un’apparizione. Ho visto centinaia di persone aspettarlo sotto il suo albergo di Parigi. Ho visto la gente fare la fila davanti al Lincoln Center di New York per vedere Storia di un italiano. Ho visto Jack Lemmon prostrarsi ai suoi piedi e pronunciare davanti al pubblico incredulo: “That’s my teatcher (questo è il mio maestro!)”. Mi fu raccontato di un suo viaggio in Russia con il pubblico delirante davanti a lui che indossava uno smoking bianco. A un certo punto Alberto si mise a urlare al microfono: “Diteglielo a Breznev che, invece di buttare i soldi nei missili, vi comprasse a tutti lo smoking…”


Ho ripensato al suo essere romanista, alla sua fede calcistica che in verità coltivava pochissimo, perché era una fede di altri tempi, di quando il calcio era una bella passione, un motivo per stare insieme, per ridere, per prenderci in giro: i più anziani di noi ricordano ancora con nostalgia i tempi di quando laziali e romanisti andavano allo stadio insieme, per scambiarsi il panino con la mortadella e la frittata e gli sfottò.

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La sua compagna degli anni della giovinezza, Andreina Pagnani (una grande attrice, che il pubblico ricorda soprattutto nella parte della signora Maigret), sul letto di morte gli disse: “Caro Alberto, mi hai fatto tanto piangere, ma ti perdono perché mi hai fatto tanto ridere”. E la sua morte ci ha fatto piangere tutti, ma è stata anche una straordinaria occasione per ridere di nuovo dei suoi personaggi delle sue battute. “America’ faje Tarzan!”, è lo striscione più significativo fra tutti quelli che i suoi fans in lacrime gli hanno dedicato.


Ho ripensato a tutte queste cose, e a tante altre ancora, quando l’ho visto per l’ultima volta composto nella bara. Ho ripensato alla sua vita, alla sua vita meravigliosa, vissuta con discrezione ma anche sul grande palcoscenico dello spettacolo nazionale, ho ripensato ai suoi centoquarantanove ‘figli’ e mi è venuta in mente una frase che ho scritto nel libro in cui i suoi fans lasciavano la loro firma: “Caro Alberto, la tua vita è stata talmente bella che viene la voglia di chiedere il bis!”


Alberto fu un attore precocissimo, Iniziò a 16 anni dando la voce a Oliver Hardy. Alla fine della guerra, pur essendo ancora giovane, aveva dietro di sé un curriculum molto denso : aveva interpretato diversi film, avevo fatto il teatro di rivista (le due Zabùm e Soffiasò) ed era una delle ‘voci’ più note del doppiaggio. Eppure anche lui, come quasi tutti gli italiani, dovette ricominciare daccapo. Era come se la guerra avesse spazzato via ogni cosa, come se tutti volessero dimenticare il passato.

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Dopo un attimo di smarrimento, si guardò intorno alla ricerca di un mezzo che gli facesse recuperare il tempo perduto e che gli permettesse di raggiungere rapidamente il pubblico di tutta Italia. Il mezzo c’era : era la radio che a quell’epoca stava diventando alla portata di quasi tutti gli italiani.


Alberto capì che attraverso la radio avrebbe fatto il primo passo importante della sua nuova carriera. Però bisognava arrivarci, superare ostacoli tutt’altro che agevoli, forzare un ambiente chiuso che si difendeva dai ‘nuovi’ e dagli ‘intrusi’.


L’idea e il personaggio da proporre li aveva ed erano ispirati all’Italia di allora o, meglio, a un’Italia che Alberto conosceva bene, quella dell’Azione Cattolica, dei ‘giovani esploratori’., insomma dei ‘Compagnucci della Parrocchietta di Don Isidoro’. Che nella nuova Italia democratica si preparavano a diventare classe dirigente.
Il personaggio aveva tutte le caratteristiche necessarie per fare presa sul pubblico: era petulante, assillante, era egoista e arrivista, mascherato dietro un’apparenza caritatevole e altruistica.

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Purtroppo aveva un grave difetto: era ispirato alla realtà ed allora la radio era concepita soltanto come pura evasione. E Pugliese il direttore della radio non ne voleva sapere. Finché non gli venne in soccorso un colpo di fortuna incredibile.


Ho sempre avuto il sospetto che Alberto non amasse il Compagnuccio della parrocchietta. Ma sono certo che provava grande simpatia per Nando Moriconi ‘americano der Kansas City’, un personaggio che aveva accennato in un episodio di Un giorno in pretura e che successivamente sviluppò nel film Un americano a Roma. Nando Moriconi è un giovane proletario, sognatore e superficiale, che vive alimentandosi del mito americano. Sogna di essere un grande ballerino di tip-tap, rivive nella realtà i film che vede la sera, come se la vita fosse un grande film americano con Fred Astaire, Gary Cooper, Joe Di Maggio. Va in giro per Roma sopra una potente ed enorme Harley Davidson parlando un improbabile inglese e vestito con una ancora più improbabile divisa da sceriffo, con tanto di stella, della polizia del Kansas City.


A quell’epoca a Roma di giovani come Nando Moriconi ce n’erano molti: costretti a vivere in una realtà poco esaltante, fatta per lo più di miseria e di disoccupazione, finivano per rifugiarsi nel sogno americano, così come veniva loro proposto dal cinema e dalla pubblicità. Nando e il Compagnuccio avrebbero avuto uno sviluppo diventando senz’altro i prototipi di due categorie di italiani che Sordi successivamente si accanirà a rappresentare. Il Compagnuccio si intuiva che avrebbe fatto strada, che sarebbe diventato qualcuno, all’ombra della parrocchia di don Isidoro: era facile intuire che prima o poi avrebbe messo a frutto la sua furbizia e il suo arrivismo che si nascondeva dietro 1’apparenza di stupidità e sprovvedutezza.

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Nando Moriconi è riapparso invecchiato in un film degli anni Settanta (Di che segno sei?), oramai sistemato: va ancora in giro con la sua mastodontica Harley Davidson, questa volta non per gioco ma per lavoro. Dopo un passato burrascoso e precario, è stato assunto come tutore dell’ordine privato, come vigilante al servizio di un commendatore danaroso che teme di essere sequestrato. Alla fine del film, Nando, che sta banchettando insieme ai suoi colleghi al tavolo accanto a quello dei commendatori, pronuncia una battuta agghiacciante, mentre addenta abbacchio e bucatini all’amatriciana: “Approfittiamo di questo momento che c’è il boom della paura!” Ecco, finalmente in questa Italia malata e mostruosa uno sempre emarginato come Nando Moriconi ha trovato una sua occupazione stabile, un suo ruolo preciso. Non solo, ma finalmente quello che era stato il suo hobby giovanile è diventato lavoro. Insomma, oggi le creature giovanili di Sordi, il Compagnuccio della parrocchietta e Nando Moriconi, chi più e chi meno, hanno fatto carriera.


Una volta gli chiesi che cosa avrebbe fatto se non fosse diventato quel grande attore che era. Lui mi disse: avrei fatto l’antiquario. La passione per l’antiquariato glie la aveva trasmessa il grande Antiquario Apolloni di cui era amico. Alberto prima si riempì la sua bella casa di Via Druso di mobili di grande valore e quando la casa non poteva più contenerne, comprava una villa, la arredava secondo il suo gusto e poi la rivendeva, magari rimettendoci, ma appagando così il suo hobby.


Alberto aveva una bellissima voce da basso profondo che non riuscì mai a sfruttare. La passione gli era venuta perché il suo papà Pietro suonava il basso tuba nella orchestra del Teatro dell’Opera di Roma. Soltanto nel film Mi permette Babbo, con Aldo Fabrizi, riuscì a raccontare questa sua passione. Lo fece raccontando di un giovane cantante lirico che aspira a debuttare all’Opera in una parte secondaria che è quella del dottore della Traviata.

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Inventò canzoncine strampalate come le sue imitazioni assurde. Lui cantava, spacciandosi per il maestro Gambara, canzoni come Carcerato, come Nonnetta, con versi assurdi come “Nonnetta tu sei paralitica, non puoi camminar ma ritmar certo potrai…”. Oppure come “Sono carcerato… ritmo sincopato…”
Il pubblico all’inizio si sentiva provocato da tanta iattanza e spesso reagiva male ma i più avvertiti capirono che avevano a che fare con un tipo speciale.


Ogni momento però è buono per riflettere sulla figura e l’opera di questo grande, immenso italiano. Spesso mi domando: ma Alberto Sordi è stato un comico? Certamente sì. Uno dal quale ci si aspetta sempre la battuta e il risvolto che provochi la risata. Ma se restassimo solo a questa definizione, cioè al suo essere comico, faremmo un grande torto a lui e al cinema italiano. Perché Sordi è stato attore a tutto tondo: drammatico, tragico, grottesco e chi più ne ha più ne metta. Solo che tutte queste componenti erano forse rese più vere e più pregnanti proprio dalla sua natura di comico, che dava ai personaggi sfaccettature impensabili e vere.
Sordi è stato soprattutto uno “storico”, perché ha raccontato gli italiani e l’Italia negli anni del dopoguerra, della ricostruzione, del miracolo economico e della crisi e oggi, se fosse ancora fra noi, certamente sarebbe il testimone della decadenza del nostro Paese.


Fra duecento anni se ci sarà ancora qualcuno che vorrà studiare l’Italia e gli italiani del Novecento gli sarà sufficiente studiare i film di Alberto Sordi.

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Per questo alla domanda, che mi sono posto e che mi viene sovente posta se Alberto Sordi sia stato un attore o un comico mi viene da rispondere: Sordi non è stato nulla di tutto questo, ma è stato e sarà per sempre Alberto Sordi.

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