La “Marcia su Roma”: la parabola di Mussolini e i moniti inascoltati della Storia

Il corpo invelenito di una società che ha smarrito i valori fondanti su cui è stata edificata dopo la tragica esperienza di cui la marcia su Roma fu il primo sanguinoso sigillo, sta a testimoniare che il virus del fascismo non ci ha mai abbandonato

La “Marcia su Roma”: la parabola di Mussolini e i moniti inascoltati della Storia
Marcia su Roma
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

28 Ottobre 2023 - 01.41


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La sera del 29 ottobre 1922 un giornalista, ex socialista metamorfizzatosi in aggressivo e sfacciato capo di una formazione eversiva che veniva da una sonora sconfitta nella tornata elettorale dell’anno prima nonché da un biennio di spudorate violenze tollerate e facilitate dai governi liberali, si accomodò mollemente nella cuccetta di un treno notturno che da Milano conduceva a Roma, come un placido piccolo borghese che si concedeva una vacanza nella città eterna.

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Nei mesi precedenti, con articoli di fuoco lanciati dal giornale di cui era direttore (Il Popolo d’Italia, da lui fondato con il cospicuo aiuto di potentati reazionari italiani e stranieri, nonché, come si è appurato di recente, dei servizi segreti britannici, tutti intimoriti dall’ascesa popolare del socialismo, che si faceva portatore di sacrosante rivendicazioni di giustizia sociale, difesa dei diritti primari dei lavoratori e della dignità umana delle classi ignominiosamente sfruttate dal capitale), con interviste e con discorsi sovversivi dell’ordine costituito tenuti in comizi o alla Camera di cui era deputato, il giornalista aveva criminalmente attizzato il fuoco su una situazione sociale ed economica già incendiaria, con un unico intento: distruggere lo stato liberale e instaurare una personale dittatura, forte dell’appoggio di consistenti settori dell’Esercito regio, di un monarca inetto e pavido attorniato da altrettanto incapaci consiglieri, delle forze del grande capitale finanziario, industriale e agrario, di interessi stranieri. Per ingrullire i gonzi, gli ignoranti e i disperati che certo non mancavano, brandiva parole insulse (“rivoluzione”, “partito insurrezionale”, “formidabile primogenitura ideale”, “insorgenza” e via discorrendo), attingendo a piene mani dall’armamentario retorico che non gli faceva difetto.

Cinque giorni prima, il 24 ottobre, aveva riunito a Napoli le sue schiere per un congresso, in una sorta di prova generale dell’incombente atto di forza, e tra il 27 e il 28 ottobre aveva mobilitato l’accozzaglia di avventurieri, lestofanti, spiantati, delusi, invasati, giovinastri in uzzolo di scampagnata e idealisti in cerca di un ideale qualunque, imbrancati in alcune località dell’Umbria e del Lazio prima di sciamare verso la capitale in un’azione eversiva che intendeva forzare la mano alla monarchia e portare al governo se stesso e il manipolo di delinquenti di cui si ergeva a capo supremo.

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Lui però, prudentemente, “rimaneva in attesa degli eventi” nella comfort zone della villa di Margherita Sarfatti, sua amante, protettrice e finanziatrice, a Cavallasca, in provincia di Como, pronto a svignarsela in Svizzera nel caso lo Stato, per una volta, si fosse comportato da Stato e le cose si fossero messe male: che i camerati si fottessero, a lui importava salvare la pelle.

Ma lo Stato non si comportò da Stato: la sera del 27 ottobre l’inconsistente Presidente del Consiglio, Luigi Facta, aveva presentato al re le dimissioni del suo governo; gli eventi precipitarono, e nella notte fu convocato d’urgenza un Consiglio dei ministri, che decretò lo stato d’assedio in tutto il Paese, con l’interruzione delle linee ferroviarie, la sospensione del servizio telefonico pubblico e la censura telegrafica. La comunicazione fu diramata ai prefetti alle 7.30 del mattino successivo con telegramma. Alle 9 il decreto per lo stato d’assedio fu presentato a Vittorio Emanuele III: il monarca rifiutò di firmarlo, condannando con quella scellerata scelta l’Italia al ventennio più fosco e tragico della sua storia. Intorno a mezzogiorno il governo inviò un nuovo telegramma ai prefetti, che annullava il precedente. Si può ben immaginare il caos, la disperazione e lo stordimento in cui versava il Paese in quelle drammatiche ore, che fa il vergognoso paio con i giorni del settembre di ventuno anni dopo, susseguenti all’Armistizio siglato con le forze alleate dopo la caduta del giornalista assurto a dittatore, con la fuga vigliacca del re, della sua corte e del governo Badoglio a Brindisi. Nel pomeriggio il monarca di Casa Savoia affidò ad Antonio Salandra la formazione di un nuovo esecutivo, ma i fascisti, rifiutando di entrarvi, sabotarono il tentativo, inverando l’avvertimento del loro capo, che nel suo discorso al congresso napoletano aveva minacciosamente dichiarato: “Noi fascisti non intendiamo andare al potere per la porta di servizio, noi fascisti non intendiamo rinunciare alla nostra formidabile primogenitura ideale per un piatto miserevole di lenticchie ministeriali!” Come non bastasse, i quotidiani non legati ai facinorosi furono diffidati dall’uscire, e il 29 ottobre vennero incendiate le tipografie di numerosi giornali di sinistra e dei popolari.

E così i “Quadrumviri” del giornalista, quattro sciamannati che solo la retorica di regime e la compiacenza di certa miope storiografia poteva dipingere come uomini di un qualche spessore e assimilarli agli antichi condottieri romani, ebbero mano libera: con lo Stato in poltiglia, e quel che ne rimaneva connivente, i sovversivi non avevano più alcuna opposizione. Il 29 ottobre convocarono il loro capo, che non aveva partecipato ad alcuna “marcia”: adesso poteva scendere senza alcun pericolo a Roma. Vi giunse la mattina seguente, fresco e riposato dopo una comoda notte in cuccetta allettato da sogni di gloria, assunse con piglio guerresco studiate pose davanti agli obiettivi, ben consapevole della forza suggestiva e fallace delle immagini che l’avrebbero consegnato alla storia, quindi incontrò il re per assumere l’incarico di governo. Lo conserverà per 7.582 giorni (20 anni, 8 mesi e 25 giorni), per poi essere defenestrato dal suo Gran Consiglio il 25 luglio del 1943, non prima di aver condotto alla completa distruzione morale, materiale ed economica un intero Paese, macchiando indelebilmente la sua figura del sangue di migliaia di innocenti e di vergognose leggi che ancor oggi gridano vendetta. La presa del potere tuttavia non fermò le selvagge brutalità fasciste: bastonature, somministrazioni di olio di ricino, aggressioni nelle loro abitazioni a personaggi di spicco (tra i quali il deputato comunista Nicola Bombacci, l’ex Presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti, il deputato socialista Elia Musatti), a comuni cittadini, assalti a camere del lavoro, e tutto il corollario delle vigliacche violenze che avevano imbarbarito l’Italia in quello che gli storici ricordano come “il biennio rosso”.

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Nel pomeriggio del 31 ottobre orde fasciste sfilarono davanti all’Altare della Patria e al Quirinale, illegalmente armate, in palese spregio al loro capo insediato al governo e al re che l’aveva nominato. Nei mesi successivi, l’ex giornalista e costituendo dittatore istituzionalizzò quelle bande armate, creando con un titolo ossimorico la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, posta direttamente ai suoi ordini, in clamorosa violazione dello Statuto Albertino allora vigente, il quale stabiliva che le forze armate fossero sotto il comando del re. Da quel momento in poi, si dispiegherà il frutto avvelenato della cosiddetta “marcia”: soppressione della sovranità popolare, dei diritti civili, delle libertà democratiche, sindacali e di stampa, omicidi di stato, guerre coloniali, ingreggiamento ideologico e comportamentale, vergognose leggi razziali, la folle entrata nel Secondo conflitto mondiale, le stragi nazifasciste.

Come a chiudere un tragico cerchio inaugurato con l’infausto evento di cui il 28 ottobre di quest’anno ricorre il centenario, l’ultimo atto del dittatore fu in perfetta sintonia con la scelta pavida e opportunista di salvare capra e cavoli nel caso la sollevazione contro lo Stato innescata con la “marcia” sulla capitale fosse andata a catafascio: mascherato sotto un elmetto e l’improbabile divisa di un milite tedesco, imbrancato su un camion dell’esercito della Wermacht in rotta dopo la sconfitta subita dalle forze alleate e partigiane, tentò una pusillanime fuga verso il nulla, lasciandosi alle spalle un Paese in macerie, dolore e lutti infiniti.

In una struttura sociale democraticamente matura, autenticamente civile, le vicende che portarono alla cosiddetta marcia su Roma, i significati che assunse nella propaganda di regime e le conseguenze che determinò nel ventennio successivo costituirebbero un ineludibile monito a mai più ripetere gli errori di una storia nefasta. Ma molti esiti dell’Italia repubblicana – strategia della tensione, stragi di stato, eversione nera, P2: tutti di matrice neofascista, il revisionismo storico, la mistificazione dei fatti, lo svilimento dell’antifascismo, l’insediamento nelle istituzioni di personaggi che mai hanno abiurato la loro criminale ideologia –, il corpo invelenito di una società che ha smarrito i valori fondanti su cui è stata edificata dopo la tragica esperienza di cui la marcia su Roma fu il primo sanguinoso sigillo, stanno a testimoniare che il virus del fascismo non ci ha mai abbandonato, che gli anticorpi che determinarono la sua sconfitta sono scomparsi, o non più efficaci. Soprattutto, stanno a testimoniare che la Storia nulla ci insegna.

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