La diga mafiosa e la strage del Vajont: 60 anni fa i 1910 morti seppelliti dal fango

La strage del Vajont, quasi 2000 morti (di cui 487 bambini) seppelliti dal fango nella notte del 9 ottobre 1963. Memoria distorta e profitto a ogni costo.

La diga mafiosa e la strage del Vajont: 60 anni fa i 1910 morti seppelliti dal fango
La strage del Vajont
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9 Ottobre 2023 - 09.14


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di Lucia Vastano

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Sono passati sessanta anni dalla strage del Vajont, quasi 2000 morti (di cui 487 bambini sotto i 15 anni) seppelliti dal fango in una notte di un tiepido autunno di tanto tempo fa. La diga non è crollata, come ancora vergognosamente si legge spesso sui giornali o si ascolta alla radio o in televisione. Tanti in questi anni si sono “distratti” (“A decenni dal crollo, l’immigrato abita a Vajont”) che doveva commemorare l’anniversario, che voleva, nelle intenzioni, fare Memoria. E così, eccola qua, una memoria sbagliata e irrispettosa, come chi ha scritto quel titolo e quella didascalia. Troppo spesso oramai scivolano nell’errore molti giornalisti, sempre troppo distratti, incapaci di avvicinarsi alle cose di cui scrivono. Senza passione o forse semplicemente senza che qualcuno che gli abbia insegnato il mestiere prima di avventurarsi nella narrazione dei fatti.

Nelle redazioni purtroppo ci si fa un’opinione prima di conoscere i fatti e si sceglie da che parte stare prima di sapere cosa si sta scegliendo. D’altro canto l’Editore sa bene cosa si deve raccontare e come. E alleva giornalisti come galline in un pollaio pronte a servire il gallo per fare l’uovo ogni mattina. Le nuove generazioni di giornalisti non sanno che quando si guardano le cose da lontano non si può non sbagliare. E’ sempre così, che si scriva di Afghanistan, o della disperazione di chi non ha più un lavoro, o dei morti di amianto, o di Vajont. Vicinanza, competenza, libertà sono parole fuori moda in un mondo che corre e che brucia tutto troppo in fretta e che volta pagina ancora prima di averla letta fino in fondo.

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Ma basterebbe passare per Longarone o da Erto e Casso, oramai anche soltanto virtualmente, per evitare l’errore. La diga del Vajont non è crollata. E’ lì. Forte, cinica e austera come le persone che l’hanno voluta e saputa erigere a tutti i cosi. La storia del Vajont, in fondo, è tutta qui, in queste poche parole: l’hanno voluta erigere a tutti i costi per profitto, per ambizione, per convenienza politica ben sapendo che quel mostro di eccellenza italiana, 261 metri di ingegno allo stato puro, avrebbe provocato un’immensa frana dal Monte Toc e che quella frana avrebbe ucciso. Lo sapevano bene anche rappresentanti dello Stato italiano che avrebbero dovuto vigilare e proteggere la cittadinanza, ma si sono voltati dall’altra parte per non disturbare il “progresso” (quello nelle tasche dei loro amici) che avanzava. Così sta scritto nelle sentenze del Tribunale dell’Aquila che hanno condannato lo Stato italiano, l’Enel e la Montedison: omicidio colposo plurimo con l’aggravante della prevedibilità. Tutti i poteri, tutte le caste di un tempo (quella politica, imprenditoriale, parte della magistratura, la stampa e persino le autorità ecclesiastiche della zona) hanno voluto con ostinazione quella diga costruita con soldi pubblici dalla Sade, una potente impresa privata dell’epoca.

Quando poi nel 1962 l’energia elettrica venne nazionalizzata, la Sade affluì nell’Enel e i suoi giganti di cemento, compresa la diga del Vajont, vennero comprati con altri, tanti, soldi pubblici. Ecco il business. O sarebbe meglio dire il gioco delle tre tavolette. Chi perde paga. E guarda caso, visto che chi ha il gioco in mano imbroglia, chi perde siamo sempre noi. Noi cittadini e soprattutto i superstiti abbiamo continuato a perdere anche dopo la strage, grazie alle truffe legalizzate di una legge scritta ad hoc dagli stessi poteri che l’avevano causata: la legge Vajont (n.357/1964), un fiume di soldi alto quanto la diga elargito per riempire le casse dei soliti furbi legati al potere mentre poche briciole di risarcimenti riuscivano a tappare le bocche ai superstiti (qualche milione di lire per un’intera famiglia estinta).

La legge funzionava così: chiunque nei luoghi colpiti dal disastro avesse una licenza per una qualsiasi attività poteva accedere a un finanziamento illimitato per riavviare o ampliare la sua impresa (fosse un esercizio commerciale, la vendita di cucchiai di legno da ambulante, il lavoro da idraulico). Di questi finanziamenti il 20% era a fondo perduto, il rimanente andava reso con un mutuo di 15 anni ad un tasso quasi sempre dell’1% (mai superiore al 3% in un periodo in cui l’inflazione in Italia raggiungeva il 15%) e inoltre vi era l’esenzione dal pagamento delle tasse sui profitti dell’impresa per dieci anni. Benissimo, si potrà dire, chi ha perso tutto, compreso i suoi cari, venne dunque risarcito in modo adeguato. Ma purtroppo la volontà del legislatore non era quella di fare giustizia. Vediamo perché.

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La legge stabiliva infatti che: 1) chi non voleva o non poteva riprendere l’attività (magari vedove o anziani con nipoti a carico) aveva diritto a venderla ad altri e che questi potevano beneficiare degli stessi diritti dei proprietari originari della licenza; 2) le attività si potevano avviare anche fuori dalle aree colpite dall’onda, praticamente in tutto il Triveneto; 3) dopo un primo finanziamento se ne potevano richiedere altri. Ecco, in altre parole, spiegato il mistero del miracolo del Nord Est. Avvocati e commercialisti si fiondarono dai superstiti, ancora sotto shock, per fare incetta delle licenze. Per poche lire e senza dire che possederne una era come avere una gallina dalle uova d’oro dicevano, magari a vedove inconsolabili: “Cosa te ne puoi fare tu della licenza di meccanico di tuo marito che è morto? Noi ti vogliamo aiutare, te la paghiamo bene”. Così per poche decine di migliaia di lire, i “furbi” che conoscevano la legge acquistarono dagli “ignoranti” le loro galline dalle uova d’oro. Ho avuto accesso al libro del comune di Longarone in cui sono registrati le vendite delle licenze e i primi finanziamenti ai nuovi proprietari. Per fare un esempio su tutti: la Zanussi Mel compra tre licenze per qualche centinaia di migliaia di lire ed ottiene un finanziamento di oltre 6 miliardi di lire dell’epoca (un vero sproposito) oltre al diritto di non pagare le tasse. Chi ha ottenuto la licenza ha avuto in seguito accesso ad altri finanziamenti, ma non si può sapere a quanto ammontino in quanto la loro registrazione è custodita negli archivi del Conib a cui non è concesso l’accesso. E’ questo uno dei più vergognosi segreti del Vajont.

Il Vajont insegna i metodi che da allora vengono adottati per fare profitto sulla pelle delle vittime e delle disgrazie. Il Vajont, se raccontato nel modo giusto, potrebbe diventare un esempio di cosa fare e non fare per evitare le tragedie e poi per evitare che qualcuno approfitti delle tragedie per i suoi fini. Ma chi tocca Vajont muore, si dice dalle parti della diga. La verità va fatta scivolare nelle derive delle imprecisioni, delle bugie, delle violenze distratte anche di chi si avvicina senza umanità e soltanto per un anniversario importante come questo ad una cittadinanza e a un territorio feriti. Il Vajont racconta di una mafia diversa da quella de Sud, che spara per tappare le bocche. Racconta di un metodo mafioso così diffuso nel Nord, ma così raffinato e silenzioso da chiamarsi impresa o sviluppo o creazione dei posti di lavoro. Varrebbe la pena che tutti leggessimo come il codice penale ha definito il reato di mafia (articolo 416-bis del codice penale, introdotto dall’articolo 1 della legge 13 settembre 1982, n. 646)): l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza dell’intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri…”.

Il Vajont è un esemplare caso di mafia del Nord, senza il contributo di famiglie siciliane o campane o calabresi. Una mafia dei colletti bianchi e dei loro uomini che li rappresentavano negli alti vertici dello Stato, dei giornali e di tutte le istituzioni che, se avessero voluto, avrebbero potuto impedire la strage di innocenti. Ignoranza, indifferenza, ipocrisia. Quando tutti noi ci cibiamo di questi cibi all’apparenza saporiti diventiamo complici di mafia.

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