'I Am. Sono io': lo spettacolo per ogni gender al Teatro di Documenti di Roma

I Am. Sono io. Lo spettacolo di Anna Ceravolo sulla realtà transgender per capire l'importanza della legge appena votata in Spagna

I Am di Anna Ceravolo - uno spettacolo per capire cosa significa essere transgender
Tony Scarfì al Teatro di Documenti per I Am di Anna Ceravolo
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21 Febbraio 2023 - 21.41


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di Alessia de Antoniis

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Al Teatro di Documenti ha debuttato I am, uno spettacolo dedicato a tutti coloro che vogliono capire cosa significhi essere transgender.

Non è lo spettacolo che uno si aspetta, non è la spettacolarizzazione di un fenomeno per acchiappare like e aumentare le visualizzazioni.

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I am è uno spettacolo di formazione, di crescita, che accompagna lo spettatore nella storia di una parte della razza umana a cui è stato negato il diritto di vivere alla luce del sole per mere motivazioni culturali.

Perché un o una transgender è innanzitutto un essere umano. Non è un caso psicologico, non è un malato, non è un diverso. E’ semplicemente una persona il cui genere attribuito alla nascita, donna o uomo, e quello legato alla propria identità, non coincidono. Un transgender è una persona per la quale c’è una discrepanza tra il sesso biologico e quello di genere.

Quale malattia avrebbe un transgender? E’ diverso rispetto a cosa? Un tulipano è un fiore così come una mimosa o una rosa. Ha una forma sua, un profumo suo, una stagione di fioritura sua. Ma nessuno negherebbe mai che un ciclamino non sia un fiore solo perché a San Valentino sono d’obbligo le rose.

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I am attraversa una panoramica storica, partendo dalla mitologica figura di Tiresia, l’indovino sia uomo che donna. Il testo si snoda poi attraverso l’evoluzione dei diritti e delle leggi che regolano la vita degli omosessuali. Come se esistessero leggi che regolano diversamente la vita degli uomini e delle donne etero. Perché la legge è uguale per tutti…tutti quelli previsti.

Ma il percorso più interessante è quello che il testo di Anna Ceravolo fa nel mondo della psicologia e della psicoanalisi e nel ruolo che gli studi in materia hanno giocato a partire dal “Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali”, il cosiddetto DSM.

A partire dalla prima stesura, quella del 1952, anno di pubblicazione del DSM-I, una realtà umana, l’omosessualità, viene classificata come una “deviazione sessuale” all’interno della più ampia categoria di “disturbo sociopatico della personalità” dei disturbi di personalità. La diagnosi di deviazione sessuale includeva “omosessualità, travestitismo, pedofilia, feticismo e sadismo sessuale”.

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Per una malattia che non c’era, avevamo creato una patologia. La cura: dalle catene alle docce fredde, dalla camicia di forza all’elettroshock. Con buona pace dei nostri antenati della Grecia classica, il DSM-I e le sue successive modifiche apriranno le porte dei manicomi a normali esseri umani che chiedevano solo di vivere secondo natura.

La prima revisione del prezioso testo data 1968. Anni di studi avranno portato a un’evoluzione? Certo! E infatti fu ampliata la categoria diagnostica della “deviazione sessuale”. Omosessualità, feticismo, pedofilia, travestitismo, esibizionismo, voyeurismo, sadismo, masochismo, altre deviazioni sessuali e deviazioni sessuali non specificate: il DSM-II presentò chiaramente l’omosessualità e le altre “deviazioni sessuali” come disturbi mentali.

Solo nel 1974 il DSM rinominò l’omosessualità come “disturbo dell’orientamento sessuale” e aggiunse che l’omosessualità “di per sé non costituisce un disturbo psichiatrico”.

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Appurato che un gay non è un soggetto psichiatrico, perché portare in scena un simile spettacolo? Perché vederlo? Perché diffonderlo nelle scuole?

Perché l’Italia, a differenza di altri Paesi Europei, ultima la Spagna, non ha una legislazione che ha al centro il vissuto doloroso causato dalla divergenza tra genere e identità.

Perché in Italia il percorso per diventare la persona che si desidera, richiede molti anni, è irto di difficoltà e si scontra con ostacoli giuridici e iter medici complessi. Non di rado sopporta il carico di pregiudizio e diffidenza, la cui matrice risiede nell’ignoranza e, nei casi peggiori, è vittima di atteggiamenti di dichiarata transfobia.

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Perché oggi, grazie a un coming-out più diffuso e a un maggior ricorso a centri specializzati, in base agli unici dati disponibili tratti dalle persone che si rivolgono ai centri per l’adeguamento di genere, sappiamo che questa realtà interessa lo 0,5-1% della popolazione generale, quindi circa 500.000 persone, contro una diffusione dello 0,002-0,005% negli anni ’80.

Perché non c’è un fiore che ha più diritto di un altro di esistere e sbocciare. Questo sì che sarebbe contro natura.

Perché i diritti non hanno genere.

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Sul palco due narratori assurdi e strampalati, le apparizioni di una figura misteriosa che si porge con linguaggio poetico, un araldo che è una citazione dei mimi che voleva con sé Marcel Marceau, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita.

I am muove dal desiderio di abbattere i confini tra le persone, per capire, normalizzare, sdrammatizzare, e soprattutto risvegliare, un sentimento di empatia, quella che serve per comprendere il mondo e per cambiarlo.    

I am. Sono io.

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Scritto e diretto da Anna Ceravolo, vede in scena Tony Scarfì, Gaetano Lizzio, Cristina Maccà e Donatella Mei.                  

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