Elena Arvigo: "Si parla di Stati e ci si dimentica che dietro ci sono esseri umani"

Dal 2 al 5 febbraio all'Argot Studio con "4:48 Psychosis" e il 26 aprile con "I monologhi dell'atomica". Intervista a Elena Arvigo

Elena Arvigo - Ph Maria Luisa Celani - intervista di Alessia de Antoniis
Elena Arvigo - Ph Maria Luisa Celani
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31 Gennaio 2023 - 19.07


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di Alessia de Antoniis

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Dopo “I monologhi dell’atomica” Elena Arvigo sarà in scena all’Argot Studio di Roma dal 2 al 5 febbraio con “4:48 Psychosis”, di Sarah Kane: non l’ultima lettera di una suicida, ma una preghiera, una richiesta di ascolto e di amore.

Il 26 aprile Elena sarà di nuovo all’Argot Studio con “I monologhi dell’atomica”, tratto da “Preghiera per Chernobyl” di Svetlana Aleksievich e da “Racconti dell’Atomica” di Kyoko Hayashi, già andato in scena a novembre al Teatro Tor Bella Monaca di Roma.

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Due spettacoli completamente diversi con un comune denominatore: l’inferno che alberga nell’animo umano.

Ne “I monologhi dell’atomica” abbiamo Chernobyl e Hiroshima: due eventi raccontati come un incidente e un male necessario. Cosa li unisce?

Lo spettacolo non tratta di questioni che sono politiche. A me interessava raccontare le storie delle persone, quelle che vengono messe in secondo piano rispetto alla politica. Si parla di nazioni, di presidenti e ci si dimentica che, dietro, ci sono esseri umani. Facendo così diventa tutto astratto, distante, giustificabile e non ci rendiamo conto che siamo sempre noi. Lo spettacolo  su Chernobyl nasce da quello sulla Politkovskaja, la giornalista russa assassinata. Non volevo fosse un attacco diretto ai fatti di Chernobyl. Il punto è che i Governi mentono e chi rimane sotto questa coltre di menzogne sono le persone.

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Mi piaceva avvicinare questi due eventi storici apparentemente così lontani che hanno in comune l’atomo e l’atomica. Da una parte scoppia un reattore nucleare e, dall’altra, una bomba atomica. Quello che hanno in comune è che alle persone non viene detto niente né prima, né durante, né dopo. Sempre menzogne.

La storia di Hiroshima la sappiamo, ma non tutti. Non si studia neanche a scuola. Un altro problema è che, quando un evento è passato, non interessa più a nessuno. Una volta che la macchina della comunicazione ha fatto il suo dovere, l’argomento è chiuso.

In entrambi i casi, la gente sa che c’è stata una contaminazione, ma è un fatto relegato nel passato. In realtà l’inquinamento radioattivo continua nel tempo. Le cose non si risolvono. Semplicemente non fanno più notizia.

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Nel caso di Hiroshima, l’Occidente ha addirittura dato una giustificazione morale a quel gesto folle. I nomi di due aerei erano: “Male necessario” e “Il grande artista”. È scioccante! (I tre bombardieri americani che la mattina del 5 agosto 1945 entrarono nello spazio aereo del Giappone si chiamavano: Enola Gay, The Great Artiste e Necessary Evil, quest’ultimo con il compito di documentare, attraverso una serie di fotografie, gli effetti dell’impiego dell’arma atomica – nda).

Mi piace pensare che questo spettacolo sia un pugno nello stomaco contro quelle giustificazioni che ci fanno sentire in pace con la nostra coscienza. Spesso siamo tranquilli nell’illusione di avere una corretta conoscenza storica e politica dei fatti. Poi parlano le persone che quella realtà l’hanno vissuta. Ed è un’altra storia. Con la quale, però, dobbiamo fare i conti. Le testimonianze, per me, sono l’unica cosa interessante.

Studiare il passato serve per comprendere il  presente.

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Quando la Aleksievich raccoglieva le testimonianze per scrivere i suoi articoli, chiariva che non sapeva dove queste storie sarebbero state riportate. Una contadina le disse: “a me non interessa dove lei lo scriverà, anche perché probabilmente io non avrò la possibilità di leggere il suo libro. Quello che mi interessa è che, quando va via di qua, si volti a guardare la mia casetta non una, ma due volte”. Farlo vuol dire che quella storia non è andata perduta, che è stata fissata nella mente e tramandata.

Ecco perché con i miei spettacoli desidero tramandare le storie delle persone.

Il racconto richiede un tempo, un ascolto, un interesse per quella storia. Non per la politica o per dar ragione a una parte. Ma per i racconti di vita di persone come noi. La storia di un ragazzo che non voleva andare in guerra e c’è dovuto andare, quella del ragazzo che è scappato, di una madre che ha perso tutto.

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Da un anno parliamo della guerra in Ucraina e magari si sente dire “si però l’hanno provocato”. Ma hanno provocato chi? Il problema non sono i capi di Stato. Perché devo parlare di chi ha provocato chi? Significa parlare di persone singole. Perché  un ragazzo deve andare in guerra a 17 anni? Perché la Russia è stata provocata? Chissene importa.

La stessa cosa vale per i racconti di Chernobyl. Serve il nucleare perché non c’è più energia. Ma perché devi fare delle cose pericolose, che rischiano di creare delle stragi, che sono una spada di Damocle che potrebbe provocare danni per centinaia di anni? A Chernobyl le persone muoiono di cancro e i terreni non potranno essere coltivati per secoli. Perché devono esserci giustificazioni economiche dietro la morte delle persone? Pensa ai pompieri sacrificati perché dovevano andare a spegnere l’incendio. Facciamo grandi discorsi sulle necessità di un popolo, sull’orgoglio nazionale, ma sono discorsi che fanno dimenticare che si parla di persone, di essere umani.

Spesso ci giustifichiamo usando la parola “sicurezza”. Ma fin dove siamo disposti ad arrivare per proteggere questa sicurezza? Dov’è il limite?

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Far parlare le persone fa entrare lo spettatore, all’improvviso, in un’esperienza personale. La cosa di cui la politica ha paura, è che le persone si parlino tra di loro e non siano più nemici. Tu il nemico lo crei su delle basi astratte. Il nemico, un po’come nella canzone di De Andrè “La guerra di Piero”, è uno come te che ha avuto paura prima di te e che ha sparato prima. Ma sono due persone uguali, mandate a combattere una guerra che in fondo non appartiene loro.

Se leggi le ultime lettere da Stalingrado dei soldati tedeschi, ti accorgi che molti di questi ragazzi, che noi chiamiamo “i nazisti”, non capivano neanche perché fossero lì. Per creare la guerra, prima devi creare il nemico. Sicuramente i governi sono lo specchio dei popoli, ma quello che poi li condiziona sono le economie. E l’industria bellica è una voce nel bilancio degli Stati. In questo momento ci sono tagli in ogni settore dell’economia, tranne che nell’industria bellica, che addirittura è aumentata.

Hai utilizzato i racconti degli Hibakusha, i sopravvissuti al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki?

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Kyoko Aiashi in Giappone è un eminenza. Lei era nella zona dove sono morti il 97% delle persone, nel raggio di 1,5 km dall’esplosione dell’atomica. Lei è vissuta fino a due anni fa è ha passato la vita a raccontare la sua testimonianza. Nel suo libro non c’è una condanna. Lei semplicemente racconta.

Mi ha ricordato “La specie umana” di Robert Antelme, il marito di Marguerite Duras, dove lui descrive gli aerei americani che passavano su Auschwitz. Tutti sapevano dove fossero i campi di concentramento. Sarebbe bastato bombardare le ferrovie per renderli irraggiungibili.

Spesso non fare il bene equivale a fare il male…

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Forse è peggio, perché rimani pure assolto…

Hiroshima e Nagasaki si potevano evitare. Bisognava però dimostrare che gli investimenti sostenuti per il progetto Manhattan, 2 mld di dollari dell’epoca, avevano dato ottimi risultati e far capire al contempo alla Russia che non era il caso di invadere il Giappone. Ma il Giappone era già pronto alla resa.

Questa è storia. Io ho voluto mettere insieme due situazioni lontane nel tempo e nello spazio che avevano in comune il fatto che le persone non sapevano niente.

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È il problema di quando fai diventare impersonale il concetto di Stato. Questo rende più semplice far dire alle persone “è quello Stato che si deve arrendere”.

Il pregio delle testimonianze è che passano dal cuore prima che dal cervello. Quello che dicevamo all’inizio: l’importanza di ascoltare i racconti. Quando ascolti una storia, ne diventi testimone e la testimonianza comporta un’assunzione di responsabilità.

Andare a teatro è essere testimoni. È un rito collettivo. Sei cambiato? Bene, e allora cosa farai?

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“4:43” di Sarah Kane è un testo molto diverso.

Ti rispondo con una frase tratta da un’intervista a Sarah Kane di Rodolfo Di Giammarco. Lei dice: “Io credo che la gente possa cambiare, credo che sia possibile per noi, come specie, cambiare il nostro futuro. Ed è per questo che scrivo quello che scrivo”. Non trovi sia in perfetto accordo con quello che abbiamo appena detto?

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