Giù le mani da Goffredo Mameli: Salvini, i fascisti e la storia di un’appropriazione indebita

Chi si siede al desco fascista e propugna idee divisive e dispotiche non è neanche degno di nominare Goffredo Mameli. Ecco perché

Giù le mani da Goffredo Mameli: Salvini, i fascisti e la storia di un’appropriazione indebita
Il memoriale di Goffredo Mameli
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

10 Dicembre 2022 - 14.05


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Che Matteo Salvini viva la sua esperienza politica come un’interminabile campagna elettorale, un modo per riempire di sé la ribalta offrendosi quotidianamente all’insaziabile occhio dell’opinione pubblica, è cosa risaputa. Non smise nemmeno quando era Ministro, avvalendosi di quel ruolo delicato quale amplificatore e megafono della sua martellante propaganda politica.

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Dall’inesauribile cappello a cilindro, il capo della Lega ha tirato fuori l’ennesima trovata: con la mascherina tricolore a fasciare parzialmente il viso (come nell’insensato assembramento del 2 giugno: mai indossarla tutta, per carità!), si è recato al Mausoleo Ossario dei Caduti di Roma ad “omaggiare” Goffredo Mameli, il patriota autore dell’inno italiano, caduto nella difesa della Repubblica Romana, nel 1849.

Siamo di fronte all’ennesimo gesto eclatante in linea con il progetto di accreditarsi come leader di una formazione politica che si rifà ai più alti valori della storia d’Italia. Gesto non a caso compiuto a Roma, dove l’anno venturo scadrà il mandato di Virginia Raggi, quindi campo di battaglia privilegiato per cercare consensi e occupare una posizione strategica per gli equilibri geopolitici di questo Paese.

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Ma ad un qualsiasi cittadino di buon senso, dotato di una conoscenza anche solo scolastica della storia, la domanda, come si diceva un tempo, sorge spontanea: Che diavolo c’entrano Salvini e la Lega con i valori repubblicani per i quali Mameli ha sacrificato la vita? Cosa ha a che spartire col limpido e generoso Goffredo, dal punto di vista politico, ideologico ed umano, il rappresentante di una formazione politica erede di una forza secessionista che si batteva per l’indipendenza dall’Italia, che oggi lancia anatemi contro l’Europa, che flirta con i dittatori di mezzo mondo e nelle manifestazioni sfila accanto agli eredi del fascismo?

Come sempre, qualche pillola di storia può risultare utile a smascherare questi tentativi di appropriazione indebita di un lascito morale e politico che andrebbe almeno rispettato, se non praticato e messo a frutto.

Goffredo Mameli nacque a Genova nel 1827, rampollo da parte di padre di una nobile famiglia di origine sarda, e da parte di madre di un casato aristocratico genovese. Nell’allora Regno di Sardegna (l’unità d’Italia era lungi dal realizzarsi), fu istruito nelle Pie Scuole della città natale, quindi nel collegio di Carcare (in provincia di Savona), e conseguì il baccellierato all’Università della sua città. Fu precoce talento letterario, autore di versi romantici che ben ne illuminano il carattere fervido e appassionato, e a neanche vent’anni compose le strofe che oggi noi tutti ripetiamo (in parte, magari solo quando gioca la Nazionale di calcio): il “Canto degl’Italiani”, universalmente noto come “Inno di Mameli”. Uno spirito così ardente non poteva rimanere indifferente all’empito patriottico che all’epoca accendeva gli animi dei giovani d’intelletto e cultura. S’unì presto alla lotta, e nel settembre del 1846 fu alla testa delle manifestazioni organizzate per la ricorrenza della cacciata da Genova dell’invasore austriaco, esponendo (lui sì, ne aveva ben donde) il tricolore.

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Ormai sempre più convinto d’un impegno anche militare per liberare l’Italia, nel marzo 1848 organizzò insieme ad altri patrioti una spedizione di trecento volontari che corse in aiuto di Nino Bixio durante le Cinque giornate di Milano. Lì conobbe Mazzini, delle cui idee repubblicane era ardente sostenitore, e ne uscì arruolato nell’esercito di Garibaldi, col grado di capitano.

Dopo l’armistizio di Salasco, seguito al fallimento di quei moti, tornò nella sua Genova e per protesta pubblicò L’Inno militare (la cui composizione gli fu ispirata da Mazzini), poi musicato da Verdi, e assunse la direzione del giornale “Diario del popolo”.

Per lui il tempo della battaglia tornò presto, e furono mesi di fuoco: nel novembre 1848, dopo l’uccisione del conte Pellegrino Rossi (fresco Ministro della polizia e ad interim delle Finanze dello Stato della Chiesa, accoltellato sulle scale del Palazzo della Cancelleria) e la fuga di Pio IX, Mameli accorre a Roma, ingolosito dalle notizie delle sommosse che scuotevano alle fondamenta la sonnacchiosa città eterna. Aderì al comitato sorto per promuovere la convocazione di una costituente, che avrebbe seguito il credo politico repubblicano di Mazzini. Vista l’esperienza maturata, nel gennaio 1849 il giovane Mameli (ricordiamo, aveva ventun anni) s’occupò, all’interno della Giunta Provvisoria di Governo costituitasi nel vuoto di potere, dell’organizzazione militare. Il 9 febbraio, finalmente, avvenne la proclamazione della Repubblica Romana. Fu lui ad inviare a Mazzini il telegramma: “Venite, Roma, repubblica”.

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Le cose, come sappiamo, precipitarono. Roma venne assediata dai francesi accorsi in aiuto del papa, e Mameli, divenuto aiutante di Garibaldi, come recitano le cronache “si batté eroicamente”: a Palestrina (9 maggio), a Velletri (19 maggio), quindi si oppose al definitivo assalto del 3 giugno a Villa Corsini. Fu lì che lo ferì ad una gamba la fucilata d’un francese (esiste però anche un’altra versione, meno accreditata, secondo cui fu la baionetta d’un commilitone a ferirlo, per sbaglio).

Comunque sia, fu trasportato all’ospedale di Trinità dei Pellegrini, dove venne curato dal medico Pietro Maestri: versava in ben gravi condizioni, alternando soffertissimi momenti di lucidità a deliqui. La medicina dell’epoca era quello che era, il problema si aggravò con la cancrena: avanzava a vista d’occhio, e si decise di amputare. L’intervento, eseguito dal chirurgo Paolo Maria Baroni, sulle prime parve riuscito, ma sopravvenne un’infezione, che al termine del suo micidiale corso uccise il patriota, per setticemia. Erano le 7.30 del 6 luglio 1848: a ventuno anni e dieci mesi, l’eroe spirò. Il padre Giorgio, contrammiraglio, accorse al capezzale del figlio, ma giunse troppo tardi. Fu sepolto al Verano, dov’è ancora oggi il suo monumento, ma le spoglie, traslate nel 1941, riposano al Gianicolo, nel ricostruito Mausoleo Ossario Garibaldino.

Goffredo Mameli fu dunque valoroso patriota, acceso sostenitore delle idee mazziniane. La Repubblica Romana del 1849 di cui egli fece parte ha rappresentato una delle esperienze politiche più significative del Risorgimento. In quei mesi Roma divenne il simbolo e la promessa di un’Italia libera e unita, e l’importanza storica di quell’esperimento politico giace anche nella profonda eredità che esso ha lasciato. Perché la costituzione romana fu unica nel suo genere, l’unica in Italia che abbia previsto il suffragio universale prima del referendum del 1946 (avvenuto dunque un secolo dopo!), l’unica che abolì la pena di morte, riconobbe la piena libertà di culto e soppresse qualsiasi forma di censura sulla stampa: un modello eccelso di democrazia, civismo e tolleranza. Quell’esperienza rappresentò insomma un’importante sperimentazione politica, un laboratorio di nuove idee democratiche e repubblicane, ispirate da Mazzini e arricchite da quelle di patrioti ed esuli che accorsero a Roma da tutta la Penisola e dall’estero. Un esperimento così rivoluzionario da rappresentare un pericolo per le potenze reazionarie, tanto che Francia, Spagna, Austria e Regno delle due Sicilie accolsero di buon grado gli inviti a intervenire di Pio IX.

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Cosa ci insegna tutto ciò? Almeno una cosa, direi. La biografia di Mameli ci giunge moralmente intatta, carica della sua fede repubblicana, impregnata dei supremi valori della libertà e della democrazia. Appaiono dunque un insulto alla decenza i tentativi di strumentalizzazione politica in atto per appropriarsi del suo preziosissimo lascito, operati da chi, nelle continue, aggressive esternazioni, nella pratica di governo e nella condotta umana, da quell’eredità politica e morale si discosta in maniera così clamorosa.

“Uniamoci, amiamoci/L’unione e l’amore/Rivelano ai Popoli/Le vie del Signore”: sono versi dell’inno d’Italia, scritti e “vissuti” da Mameli: rintoccano forse nell’ideologia e nella pratica leghiste tali parole incitanti alla concordia, all’unità, all’amore?

Suvvia, siamo seri, non si abusi della credulità e dell’ignoranza degli italiani: chi si siede al desco fascista e propugna idee divisive e dispotiche non è neanche degno di nominare Goffredo Mameli. Tantomeno, può macabramente agitargli le mani in un applauso ad una politica regressiva e antidemocratica, per combattere la quale egli sacrificò la vita. Ricordiamocelo, e non soltanto il 6 luglio, giorno della sua scomparsa del grande patriota.

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