Gianni Amelio: "Scambiarsi il passare del tempo"

Trent’anni dopo "Il Ladro di Bambini" che sarà presentato in versione restaurata al Festival di Roma, Gianni Amelio torna a Venezia con "Il Signore delle Formiche" diretto da Elio Gemano e Luigi Lo Cascio.

Gianni Amelio: "Scambiarsi il passare del tempo"
In foto Gianni Amelio
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Marco Spagnoli Modifica articolo

6 Settembre 2022 - 16.01 Culture


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di Marco Spagnoli

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Conta sulle dita come i bambini Gianni Amelio quando gli chiediamo che numero di partecipazione veneziana è quella con “Il Signore delle formiche” in Concorso ispirato al caso Braibanti.
“La prima volta ci sono andato esattamente quarant’anni fa, nel 1982, con Colpire al cuore, seguito – dopo un periodo in cui ho presentato i film principalmente a Cannes – da Lamerica, dal Leone d’Oro per “Così ridevano”. – ricorda il regista – “Poi ci sono stati Le Chiavi di Casa; La stella che non c’è e L’intrepido.”


Gianni Amelio torna al Lido in competizione dopo una serie di titoli come “La Tenerezza” e “Hammamet” che hanno incontrato l’interesse e il favore del pubblico, ravvivando, se possibile, ancora di più l’interesse nei confronti del cinema del regista calabrese. “Alle volte non è facile essere al passo con i tempi.” Osserva Amelio “Si rischia un’eccessiva fedeltà ai propri temi, alle proprie idee e ai propri fantasmi. Del resto per un autore che fa cinema è importante misurarsi con il tempo. I film che si fanno sono diversi a trenta, a cinquanta e a settantasette anni anche se il film ultimo resta il pubblico: per me è molto importante che sia lo spettatore il destinatario del mio cinema.”

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Cosa è cambiato in questi quaranta anni?
Molto. Se non forse addirittura tutto. Io penso di appartenere alla generazione più ‘disgraziata’ del cinema italiano. Quella che inizia a nascere quando cominciano a morire le sale così come le avevamo sempre conosciute fino a quel momento. All’epoca nessuno pensava alle multisale o alla possibilità che il cinema fosse inglobato in centri commerciali dove potevi anche mangiare…all’epoca era impensabile.
Forse erano film troppo ideologici, guidati dalla politica e spesso ispirati dalla sinistra estrema: io ero giovane e Insieme a me c’erano altri giovani, Maurizio Ponti, Peter Del Monte, Mario Brenta, Carlo Di Carlo, Marcotullio Giordana…in seguito è arrivato anche Giuseppe Bertolucci. Quelli che ancora adesso sono in vita risultano come dei ‘Sopravvissuti’. La generazione successiva, invece, ha dovuto fare i conti con qualcosa che noi avevamo vissuto in prima persona come la chiusura delle sale, la trasformazione in cinema a luci rosse, la paura di uscire per colpa degli anni di piombo. Negli anni Ottanta, poi, fortunatamente, in molti ci siamo liberati da un’ideologia troppo stretta e soprattutto dell’impegno che caratterizzava il cinema prodotto dall’Italnoleggio. Non è stato facile: io ero solo e non avevo nessuna parrocchia che mi proteggesse. Poi sono stato anche fortunato, perché grazie al sostegno della Rai e di una figura illuminata come quella di Paolo Valmarana ho potuto fare tanta televisione di un certo livello come Colpire al Cuore.

I suoi film, oggi, sono dei veri e propri “eventi” attesi dal pubblico…
Io non lavoro mai a tavolino. Anzi, le storie che ho raccontato hanno tutte qualcosa di me. Frasi, brandelli di dialoghi, elementi di personalità…anche ne Il Signore delle Formiche succede questo, sebbene io abbia rivelato qualcosa di me anche in altre storie.

Ne “Il ladro di Bambini”?
Sono il carabiniere, ma sono anche Rosetta la protagonista: perché i frammenti si compongono diversamente e io mi divido in elementi differenti. Sono legatissimo anche a L’Intrepido, ma non voglio parlarne più perché so quanto sia stato frainteso. La sorte non facile di quel film mi ha insegnato tantissimo ovvero un certo salutare distacco quando le cose vanno male e quando le cose vanno bene. Perché altrimenti diventa tutto troppo difficile.

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Guardandosi indietro come considera i suoi lavori?
Il “ladro di bambini” e “Porte aperte” sono i film che mi hanno dato una credibilità italiana ed internazionale. Penso che Così ridevano sia il mio film migliore, sebbene meno popolare, e non c’è dubbio che sia stato Lamerica a farmi conoscere in tutto il mondo.

Come nascono i suoi film?
Dico moltissimi no e alcuni sì. Questi ultimi sono i film che ho fatto: ho delle proposte che valuto per ciò che sono.

Cosa la spinge a rifiutare?
La consapevolezza di ‘non sapere fare’ quel film. Una volta, negli anni Settanta, avevo 30.000 lire in banca e mi offrirono 150 milioni per una regia. Dissi, per onestà, comunque di ‘no’ e il mio agente di allora, l’avvocato Giovanna Cau, mi guardava come un malato di mente.

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Si è mai pentito?
Mai, anche perché alle volte questi film sono diventati riusciti ed interessanti fatti da altri. Una volta mi fu proposta una cosa che io pensavo non valesse la carta dove era stata scritta la sceneggiatura. In mano ad un altro regista che l’aveva capita e apprezzata divenne qualcosa di molto interessante. Io, invece, non ci sarei riuscito, perché non avrei saputo come fare. Io non rifiuto perché sono sprezzante, ma perché sarei stato infelice nel dirigere un film che non mi interessa e questo non me lo posso permettere sul piano personale.

In che senso?
La vita è già complicata di suo: il carico di un film che non ti piace diventa troppo. Chi fa il regista è un privilegiato anche quando le cose vanno male, perché sa che un giorno la ruota girerà. Io, invece, ho già la mia solitudine con cui confrontarmi: detesto la mia età e sebbene fisicamente stia bene, soffro nel non potere condividere l’esistenza e il mio invecchiamento con qualcuno. La mia infelicità sta tutta nell’essere ‘single’: ho trascorso tutta la mia vita nel lottare contro questa condizione e avere storie che durassero. Non è successo: ho avuto moltissime avventure, ma poche storie importanti con cui scambiarsi il passare del tempo. Quello è stato un ripiego, anche se poi ho realizzato un sogno che per un omosessuale è difficile da compiere, ovvero quello di adottare un figlio e quindi di crearmi oggi una famiglia splendida. Oggi, poi, mia nipote Audina vive con me e mi fa compagnia: lei vuole fare il cinema e lavorare, come suo padre, nell’ambito della Fotografia verso cui sembra portata. E’ una presenza che mi aiuta molto. Oggi, in un certo senso, posso dire di avere “superato”, di essere andato ‘oltre’ la mia infanzia di figlio di una ragazza che mi ha avuto a sedici anni, di un padre semi ignoto che stava in Argentina, della mia omosessualità vissuta in provincia. Ne Il Signore delle formiche c’è un piccolo personaggio che ha due scene ed è lui che racconta il quadro della mia vita in Calabria quando ero ragazzo.

Vede qualcosa insieme a sua nipote?
No, abbiamo televisori differenti e condividiamo raramente delle emozioni. Per me è difficile convincerla a seguirmi in sala: io sono un onnivoro che non vuole privarsi del piacere di andare al cinema. Qualche volta, ovviamente, esco ‘affranto’, ma ricompensato dal piacere di essere stato comunque parte di qualcosa immaginato da un regista.

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Sua nipote onn le ha fatto scoprire nulla?
Solo di quanto i giovani se ne “fottano” del cinema e della letteratura.

Lei ha spesso parlato di sua nonna e del ruolo che ha avuto nel comunicarle il grande amore per il cinema: quale film di Gianni Amelio, oggi, amerebbe di più?
Quello che ha visto ed amato quando era viva: Il Ladro di bambini. Senza alcun dubbio. Mia nonna mi ha insegnato il grande amore per il cinema americano e per il melò; il suo film preferito era L’ultima volta che vidi Parigi con Elizabeth Taylor.

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