Guia Soncini ci spiega 'l'era della suscettibilità' e perché non sappiamo più essere in disaccordo

Tutti i giorni assistiamo a un meccanismo assai consolidato: se qualcosa non ti piace e lo guardi da destra, lo definirai radical chic; se qualcosa non ti piace e lo guardi da sinistra, lo definirai fascista.

Guia Soncini ci spiega 'l'era della suscettibilità' e perché non sappiamo più essere in disaccordo
L'era della suscettibilità
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4 Maggio 2022 - 14.34


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di Antonio Salvati

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Pasolini – di cui quest’anno celebriamo il centenario della sua nascita – utilizzava la formula “mutazione antropologica” nell’ultimo periodo della sua vita. Quello sulla mutazione antropologica è l’ultimo grande discorso di Pasolini, è il discorso dell’ultimo Pasolini che intendeva con essa sostanzialmente il fenomeno della omologazione culturale dettato dal nuovo potere dell’immagine, della televisione e della pubblicità, interpretati come potenti veicolatori del nuovo edonismo consumistico. Il poeta friulano non ebbe il tempo di vedere gli effetti – che definiva mostruosi – di questo fenomeno nel suo complesso, seppur lo ritenesse più visibile nei gesti, negli atteggiamenti, nelle posture del corpo, piuttosto che nelle idee, nella psicologia e nel linguaggio di un’epoca caratterizzata da una estrema povertà linguistica.

Il recente volume di Guia Soncini, L’era della suscettibilità (Marsilio 2021) individua parte di quegli effetti “mostruosi”, aiutandoci a capire i nostri tempi per tanti versi irrazionali e come si stiano diffondendo effetti inquietanti – efficacemente sintetizzati proprio con il titolo del libro – nelle nostre società occidentali che sembrano incapaci di un sereno confronto e di tollerare qualsivoglia differenza di opinione. Facciamo fatica a sopportare ogni libero pensiero, percependolo come un’offesa, un attacco, e reagiamo spesso in maniera inconsulta.

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L’autrice avverte che viviamo in un tempo «in cui l’importante è appartenere a una categoria (representation matters, identity politics), l’importante è avere dei punti deboli (trigger warning), l’importante è offendersi e chiedere la testa (cancel culture) di chi ha osato violare la nostra zona senza traumi (safe space), l’importante è avere un repertorio (un armamentario sarebbe definizione più precisa) di fragilità che ci renda speciali ma uguali (me too), l’importante è far capire con ogni parola che noi siamo nel Club dei giusti, siamo dalla parte dei buoni (virtue signaling)».

La presenza di diverse parole in inglese attesta – osserva giustamente la Soncini – che la neolingua è nata «negli Stati Uniti della Suscettibilità, che in passato hanno esportato alcune mode per le quali esser loro molto grati (il rock1, le bibite gassate, i cappellini da baseball così comodi quando non hai voglia di lavarti i capelli); di recente, hanno deciso di concentrarsi su una nuova ondata di – a seconda di quale Arthur preferiate, Koestler2 o Miller3 – stalinismo o maccartismo. Passerà, forse, ma nel frattempo è il tempo che abitiamo».

Tutti i giorni assistiamo a un meccanismo assai consolidato: se qualcosa non ti piace e lo guardi da destra, lo definirai radical chic; se qualcosa non ti piace e lo guardi da sinistra, lo definirai fascista. Frequentemente nessuna delle due parole è attinente all’utilizzo che ne viene fatto («i radical chic sarebbero multimilionari con vezzi ideologici d’estrema sinistra, e la definizione viene usata per supplenti di lettere col mutuo che abbiano opinioni blandamente di centrosinistra»). Il filologo Victor Klemperer, studioso sopravvissuto ai campi di concentramento, scrisse che il regime del Terzo Reich era stato assorbito dai cittadini attraverso stilemi lessicali «imposti con milioni di ripetizioni e fatti propri meccanicamente e inconsciamente». Una definizione utile per comprendere il senso della neolingua.

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Siamo assai veloci – soprattutto nei social – a offenderci con l’avversario («la cui sola esistenza ci sembra offensiva»). Pretendiamo una totale adesione a ogni dettaglio d’ogni opinione da parte di chiunque voglia essere dei nostri («è lo stesso principio per cui chiunque abbia un’idea lievemente diversa su una qualunque questione va a farsi il suo partitino invece di cercare di mediare: vogliamo essere adolescenti puri, non adulti poco poeticamente pronti al compromesso storico»). Eppure non siamo sempre stati così. C’è stato un tempo in cui sapevamo essere in disaccordo. Alberto Arbasino – un intellettuale raffinato che solo alcuni di una certa età ricordano – parlava di «civili confronti, interessanti dissapori», ricordando le animate discussioni in televisione tra Moravia e Sanguineti, o Moretti e Monicelli, o Lidia Ravera e Susanna Agnelli. Disaccordi intellettuali severi e non strillati, nella maniera in cui accadeva quando esisteva la civiltà della conversazione. Quella roba non esiste più in televisione, sostituita da gente che si prende a parolacce in onda e si assembra davanti allo stesso buffet di tartine fino a un minuto prima della registrazione (la vita imita il cinema: accadeva già in Celebrity di Woody Allen, nel 1998). Mi struggerò invece perché la cultura del non essere d’accordo – cioè: la cultura tout court – è scomparsa qua fuori, nel mondo.

Attenzione: questa non è una questione che divide la sinistra dalla destra. Potremmo dire che a destra nessuno si pone il problema: Donald Trump può bullarsi di «prendere le donne per la passera» e venire eletto comunque. Frequentemente è una questione interna alla sinistra. Frequentemente in Italia gli estremisti di sinistra vedono nei moderati di sinistra il loro più acerrimo nemico, detestano il dubbio e la complessità e le sfumature ben più di quanto detestino la destra. Nel 2003 quando, a un’intervistatrice che domandava «Quali sono le cose che la annoiano?», il noto scrittore cileno Roberto Bolaño rispondeva «Il discorso vuoto della sinistra. Il discorso vuoto della destra lo do per scontato». A Berlino nel 2019, Barack Obama disse: «Una cosa che mi preoccupa dei progressisti negli Stati Uniti – magari capita anche qui – è una certa rigidità, quando diciamo “O così o niente”, e poi creiamo un plotone di esecuzione col quale fuciliamo i nostri alleati perché uno di loro ha derogato dalla perfetta purezza su un qualche tema».

Siamo tutti più fragili e spaesati, ma smaniosi di appartenere a tifoserie di vario genere. Sapere da che parte stai non è secondario («non per evitare di fucilarti se deroghi dai massimalismi dei buoni, ma per soccorrerti se hai attaccato anche scompostamente i cattivi. Naturalmente il concetto di “buoni” e “cattivi” cambia a seconda del nostro posizionamento»).

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In un mondo privo di ideologie, che non coltiva la memoria storica e che decontestualizza ogni tema, tutto viene rapportato all’identità dei soggetti e quindi alla loro suscettibilità. In un tempo di fragilità psicologica e morale delle nostre comunità si diffonde fortemente quella che Francesco Remotti ha definito “l’ossessione identitaria”, da non confondere con il concetto di identità che gli antropologi dai primi decenni del Novecento applicavano a società intere o a gruppi particolari al loro interno senza porsi alcun problema di ordine concettuale. L’identitarismo è invece un’ideologia, la quale assume l’identità come suo presupposto esplicito, incontestabile, e come obiettivo irrinunciabile. L’identità quindi – parola senza dubbio bella e seducente – rischia di essere un mito per Remotti, «e nella misura in cui diventa un mito che non lascia spazi ad alternative, un mito assai pericoloso. 

I soggetti che vengono posseduti dal mito dell’identità corrono per sé e fanno correre agli altri molti rischi». Occorre dunque attrezzarsi per fare in modo che l’alterità non si insinui subdolamente in noi: «occorre prendere le misure sociali e politiche – spiega efficacemente Remotti nel suo volume L’ossessione identitaria edito da Laterza – affinché l’alterità rimanga del tutto separata, ovvero a giusta distanza, dall’identità, da ciò che il noi “è” o ritiene di “essere”, ossia dalla propria “essenza”. Se la distanza di sicurezza non viene rispettata, è quasi inevitabile che il noi agisca per ripristinare tale distanza ed è pure probabile che, sempre per motivi di sicurezza, allontani e respinga l’alterità in un qualche “altrove”, in un “fuori” rispetto al territorio (fisico, sociale, mentale) del noi. In italiano abbiamo un’espressione molto appropriata per descrivere ciò che succede in tali frangenti. L’espressione “fare fuori” può infatti significare tanto lo sbarazzarsi di qualcuno o di qualcosa, quanto la sua eliminazione, il suo annientamento. Il respingimento è uno sbarazzarsi: i vari episodi di “pulizia etnica” a cui abbiamo assistito nel Novecento ne sono la dimostrazione storica concreta».

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