Miss O’Dell: una ragazza americana di provincia nel cuore della Swinging London

Partita giovanissima da Los Angeles alla volta di Londra dopo aver stretto amicizia con Derek Taylor, il celebre addetto stampa dei quattro di Liverpool, Chris O’Dell trovò un impiego abbastanza stabile come segretaria-tuttofare alla Apple. E poi...

Miss O’Dell: una ragazza americana di provincia nel cuore della Swinging London
Chris O’Dell
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30 Gennaio 2022 - 20.32


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di Rock Reynolds

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Sul tetto della Apple in occasione del leggendario concerto d’addio dei Beatles c’era. Negli studi di Twickenham durante le session di Let it be c’era. Sull’isola di Wight per il primo megafestival rock c’era. Chris O’Dell è la ragazzina bionda seduta accanto a Yoko Ono e Maureen Starkey sul tetto ed è la stessa che appare un paio di volte nel film Get back per portare ai Beatles i testi da lei dattilografati. È sempre lei la protagonista della missione quasi cinematografica di portare con un elicottero speciale sull’isola di Wight le armoniche a bocca a Dylan che se le era scordate in America e che sarebbe stato la superstar del festival.

Partita giovanissima da Los Angeles alla volta di Londra dopo aver stretto amicizia con Derek Taylor, il celebre addetto stampa dei quattro di Liverpool, Chris O’Dell trovò un impiego abbastanza stabile come segretaria-tuttofare alla Apple, finendo per assistere al suo progressivo dissolvimento e per entrare nella casa di George Harrison e nelle vite private di molte rockstar: da George a Ringo, da Eric Clapton a Mick Jagger e, soprattutto, al pianista Leon Russell, di cui fu la compagna per parecchi mesi. Una groupie, dunque? La O’Dell non si è mai considerata tale, nonostante qualche flirt altisonante, e ha sempre mantenuto un occhio lucido, malgrado la nebbia viola, la “purple haze” di hendrixiana memoria che tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta avvolgeva l’universo rock.

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Miss O’Dell – I miei anni rock and roll (Caissa Italia, traduzione di Elena Montemaggi, pagg 312, euro 22), il suo interessantissimo memoir, trascina il lettore in una girandola di aneddoti e di istantanee dell’età dell’oro del rock, finendo per essere forse il miglior resoconto di cosa abbia rappresentato la Apple per i Beatles e per il mondo della creatività nella “Swinging London”. Se volete sapere davvero come funzionavano le cose in quel carrozzone sgangherato ma pure molto umano che era la Apple degli esordi, non riesco a pensare a libro migliore di quello della O’Dell. Se volete capire come quel carrozzone a un certo momento abbia iniziato a far acqua da tutte le parti, prima di essere preso in mano dal timoniere più improbabile – quel Larry Klein a cui si deve il precipitare della fine dei Beatles – ancora una volta nulla di più vivo è stato scritto sull’argomento.

Perché Chris O’Dell è viva dentro e ha una verve che traspare dalle sue pagine ingenue ma mai banali. E pure dalle parole con cui ha risposto alle nostre domande.

Passare da Los Angeles a Londra non deve essere stato facilissimo per una ragazza giovane come lei…

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Be’, è stata una cosa favolosa, in realtà. Ho deciso di fare un salto nel vuoto. Mi sono chiesta una miriade di volte dove io abbia trovato il coraggio per fare una cosa del genere. Al tempo, non era da tutti prendere un aereo per andare da qualche parte, naturalmente se non eri un ricco texano! Ma ho accettato la sfida, preparandomi a vivere l’esperienza attimo per attimo. Giunta a Londra, ho capito che ogni giorno avrei vissuto un’esperienza nuova ed emotivamente travolgente. In fondo, ero una fan dei Beatles e lavorare in qualche modo per loro e vederli passarmi accanto quotidianamente in ufficio è stato qualcosa di straordinario. Anche perché mi ero sempre chiesta che individui fossero nella realtà. L’ho toccato con mano.

Lavorando alla Apple anche quando Allen Klein fu chiamato a salvare la baracca, cosa che non fece, si aspettava che tutto finisse a scatafascio?

Mi aspettavo di essere licenziata come chiunque altro. In fondo, Derek Taylor fu licenziato e lo stesso Peter Asher aveva dato le dimissioni perché sapeva di non poter coesistere con Klein. Non ero particolarmente turbata dall’idea di dovermi trovare un altro lavoro, ma certo l’atmosfera creata da Klein non era più quella creativa, quasi goliardica che avevo conosciuto al mio arrivo a Londra.

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Quant’è difficile mantenere un equilibrio fra vita privata e successo?

È una delle cose più difficili che un musicista famoso debba affrontare e non tutti lo fanno nello stesso modo. C’è chi, come Paul, si districa bene tra le due cose. Paul è fatto così e adora quella pressione. George, che conoscevo meglio, detestava la fama e tutto quello che comportava. E va detto che, malgrado quanto la gente pensi, al tempo non guadagnavano tanti soldi, per lo meno non quanto avrebbero guadagnato in seguito. Certo, non erano poveri e potevano permettersi di sopravvivere senza andare in tournée. John a un certo punto si è concentrato sui suoi progetti personali e credo che al tempo a Ringo la cosa piacesse. George, peraltro, quando non ha voglia di averti intorno tende a rivolgerti un’occhiataccia che ho finito per conoscere. Bob Dylan, invece, ti guarda dandoti la sensazione di non vederti proprio. Una volta la cosa mi ha scocciato a tal punto che l’ho fatto oggetto dello stesso trattamento. E la cosa lo ha innervosito non poco.

Perché secondo lei la depressione è una costante delle rockstar?

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Prima di tutto penso che le persone creative abbiano emozioni profonde che li aiutano a scrivere canzoni, un’apertura verso la vita che talvolta le porta sulle soglie della depressione. E questo spesso le avvicina a droghe e alcol, una sorta di terapia contro la depressione. E poi c’è pure una specie di crisi di identità, di fronte all’idolatria. Il pubblico vuole sempre di più, addirittura vuole un pezzo della rockstar stessa, e questo conflitto, ovvero il confronto con l’immagine di sé che si crea sull’arena pubblica, può essere deflagrante. I musicisti sono molto più veri degli attori, per esempio. Per questo ho sempre preferito lavorare con i musicisti.

È riuscita a mantenere un rapporto di amicizia nel tempo con uno dei personaggi da lei incontrati negli anni Sessanta?

Oh, sì. Più che con i musicisti, con le persone che lavoravano nella loro cerchia. Per esempio, persone dell’entourage dei Rolling Stones. Sono rimasta per anni in contatto con Ringo Starr e Barbara Bach, anche se è da parecchio che non li sento. E molti di noi, che ora hanno tra settanta e ottant’anni, si stanno rimettendo in contatto, forse perché abbiamo la sensazione che qualcosa stia per perdersi e perché con i social è più semplice restare in contatto. Ma, per esempio, sono rimasta in rapporti di grande amicizia con Maureen, finché non è mancata. E Pattie Boyd, ex-moglie di George e poi di Eric Clapton, resta la mia amica migliore. Ci sentiamo molto spesso.

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Il film Get back di Peter Jackson ha riportato in auge il fenomeno Beatles. Non che i Beatles fossero mai tramontati. Che gliene pare?

Be’, stato interessantissimo vedermi così giovane sul tetto della Apple e negli studi. Mio figlio, per esempio, ha 35 anni. I suoi amici ascoltano i Beatles e a lui piace John Lennon. Non credo che i Beatles siano mai tramontati, ma vederli immortalati in quel film certamente aiuterà i giovani a ricordarli e, naturalmente, a ricordarli come appaiono in quei momenti, malgrado in seguito siano cambiati. E penso che il loro impatto sulla nostra cultura sia stato talmente forte che non spariranno mai.

Parlando di un concerto di George del 1974 al Madison Square Garden, scrive che a un certo punto si accorse che tre dei quattro Beatles erano in quell’arena. Ha mai pensato che potessero rimettersi insieme?

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Non mi è mai passato per la testa, il che non significa che non sia passato per la loro. Ma onestamente penso di no. Si vedevano spesso. Capitava di trovarsi nella sala di incisione in cui George o Ringo stavano registrando un disco e di vedere arrivare Paul e Linda oppure di andare alla casa che John e Ringo avevano a Malibu e di incontrare Paul, che era quello che si vedeva meno spesso. Ma George, Ringo e John si frequentavano spesso.

Parla sovente dei Rolling Stones e della sua amicizia con Mick e Keith. C’era davvero contrapposizione tra loro e i Beatles?

Non credo che fosse ai livelli promossi dalla stampa. C’era un po’ di concorrenza, ma sotto la superficie c’era rispetto reciproco. E, comunque, gli Stones possono essere felici di essere durati tanto.

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A proposito di una tournée del supergruppo CSN&Y, lei parla di ego ingestibili. Com’è stato lavorare da tour manager con loro?

Conoscevo Crosby e soprattutto Stills, che è quello con cui avevo il rapporto più stretto. Neil non lo conoscevo bene, ma chi lo conosceva realmente? Lui se ne stava sempre per conto suo e non viaggiava con gli altri. Faceva le sue cose, insomma. L’ho conosciuto diversi anni dopo, in Germania, ed era esattamente la stessa persona. Sapevo come potevano essere David Crosby e Stephen Stills, ovvero estremamente difficili, ed ero preparata, mentre avere a che fare con Graham Nash era facile. Fortunatamente, non ho mai dovuto gestire Neil Young, visto che si muoveva autonomamente. La cosa davvero difficile per me è stato occuparmi per la prima volta di un tour di quelle proporzioni, perché il mio lavoro con i Rolling Stones era stato meno assiduo.

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