In viaggio sull'Himalaya: dalle parti degli dei

L’antropologa poliglotta norvegese Erika Fatland è tornata con un altro interessante testo, La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya, la cronaca delle lunghe peregrinazioni compiute lungo la Via della Seta

In viaggio sull'Himalaya: dalle parti degli dei
Erika Fatland
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17 Dicembre 2021 - 14.17


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di Rock Reynolds

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L’avevamo lasciata nel 2019, alla vigilia della pandemia, con La frontiera, il secondo libro da lei pubblicato in Italia (per Marsilio come il primo, Sovietistan. Un viaggio in Asia Centrale, del 2017). L’antropologa poliglotta norvegese Erika Fatland (che, oltre alla sua lingua, parla inglese, francese, tedesco, russo, spagnolo e persino italiano) è tornata con un altro interessante testo, La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya (Marsilio, traduzione di Sara Culeddu e Alessandra Scali, pagg 686, euro 21), la cronaca delle lunghe peregrinazioni compiute lungo la Via della Seta e, soprattutto, tra le valli e i picchi della catena montuosa per eccellenza, l’Himalaya, luogo mistico, spaventoso, leggendario, carico di valenze politico-militari e ricco di storia e tradizione.

Stavolta il focus dell’autrice pare essere la relazione che i paesi himalayani – Pakistan, India, Butan, Nepal, Tibet – hanno con la galassia-Cina. Si può facilmente intuire i presupposti fortemente critici con cui Erika Fatland riflette sull’inevitabile impatto delle attuali politiche della Repubblica Popolare Cinese sull’intera area. In fondo, il giornalismo investigativo e di denuncia è nelle sue corde, considerato il libro Englebyen, mai pubblicato in italiano e frutto di svariati viaggi tra Beslan – città cecena teatro di uno degli episodi più raccapriccianti nella guerra russo-cecena, con la strage dei bambini di una scuola locale – e altri luoghi che hanno dato asilo a terroristi o hanno visto dipanarsi fatti poco chiari. Ed è pure suo il testo Året uten sommer (“L’anno senza estate”), un’inchiesta sulla strage di giovani attivisti socialisti sull’isola di Utøya, a due passi da Oslo, avvenuta nel 2011.

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Attenzione, però: La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya non è un libro di inchiesta né un testo di critica sociopolitica. Piuttosto, è un libro nel solco della tradizione dei grandi scrittori-viaggiatori, il tipo di libro che ha fatto la fortuna di Bruce Chatwin, a cui viene spesso accostata. L’area presa in considerazione e percorsa estensivamente e con difficoltà non piccole – vuoi per la carenza di mezzi di trasporto efficienti, vuoi per le limitazioni ai trasferimenti per motivi geopolitici – è ricchissima di etnie, lingue e culture diverse, spesso cristallizzate nel tempo dall’asperità e talvolta impenetrabilità dei luoghi stessi. La partenza è da Kashgar, città visitata da Marco Polo e descritta ne Il Milione, nella provincia autonoma dello Xinjiang, collegata al confinante Pakistan da una strada che attraversa la catena del Karakorum, in un deserto di montagna. È lì che si svolge la lunga attesa dei visti di ingresso per l’India e altri paesi che Erika Fatland intende visitare. Amara è la riflessione che ne consegue. “Al giorno d’oggi tappe e spostamenti si realizzano in un batter d’occhio: a richiedere tempo è la burocrazia.” Lo Xinjiang ha la peculiarità di essere una delle “regioni più inospitali dell’Asia centrale”, anche per via della predominanza di una landa inospitale come il deserto del Taklamakan. Il tentativo del governo centrale cinese di farvi affluire un numero crescente di cittadini di etnia Hàn non è ancora riuscito a sovvertire lo status quo, ovvero la netta predominanza dell’etnia uiguri, turcofoni e musulmani e dalle spinte pericolosamente – per Pechino – autonomiste.

Ecco che il naturale spirito critico di Erika Fatland si scontra con l’atmosfera opprimente e il clima di sospetto che il controllo centrale di Pechino impone sull’unica regione della Cina (oltre al Tibet) in cui i cinesi non rappresentino la maggioranza della popolazione. “La sorveglianza era assoluta. Chiunque si fosse messo a parlare con uno straniero avrebbe subito dato nell’occhio.”

Il viaggio e il libro si concludono ai confini con lo Yunnan e il Myanmar.

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La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya è gioco forza un librone perché racconta storie, episodi di viaggio, luoghi e culture che meriterebbero volumi individuali. Vi si parla di luoghi mitici, talvolta realmente favoleggiati o talmente bramati da meritarsi infiorettature che ne hanno sfumato i confini della realtà: Nanga Parbat, la catena del Kashmir chiamata anche “montagna nuda” o “montagna del destino dei tedeschi” per il numero di tentativi di conquista alpinistica sponsorizzati dalla propaganda nazista; Kafiristan, le cui popolazioni dagli occhi azzurri e la carnagione chiara, come narra la leggenda, discenderebbero da Alessandro Magno e dai suoi soldati; il Kashmir conteso tra India e Pakistan, al punto che ogni sera si sparano salve quasi rituali sui monti per sancire una tregua armata o, piuttosto, una guerra in stallo, “il campo di battaglia più alto del mondo”, come recita il titolo stesso di un capitolo; il sacro e il profano di un viaggio esotico in Ladakh; un incontro con il lama Tsewang, le cui parole illuminanti sul buddismo valgono una sosta di riflessione (“Il buddhismo non è una religione, bensì una scienza che tratta della vita di ognuno di noi e della verità sulle nostre vite, della natura profonda dell’esistenza del mondo. Dobbiamo sapere come funziona il mondo per poter vivere”); la fila fuori dal Security Office del Dalai Lama e la sede principale del governo tibetano in esilio; una tazza di tè in quota, con i picchi nevosi ad apparente portata di mano e la sensazione di poter stringere la mano a una divinità o, quantomeno, di poterne esorcizzare i capricci con un atteggiamento di rispettoso silenzio; la presenza quasi ingombrante di una religiosità che condiziona ogni aspetto del vivere quotidiano e che non si incarna unicamente in un guru qui e in un sacerdote là; improbabili incroci di religioni nella babilonia del misticismo che è l’India odierna, soprattutto il suo “selvaggio Est”; la mitica Kathmandu; leopardi delle nevi; divinità assetate; Tibet; Shangri-La.

C’è davvero tanto ne La vita in alto. Una stagione sull’Himalaya. Le pagine descrittive si alternano a quelle più riflessive. Le analisi geopolitiche talvolta sono inevitabili, ma non inficiano mai la voglia di raccontare il viaggio attraverso le storie di vita quotidiana, la descrizione di personaggi reali che non riescono comunque a svestire il proprio territorio del manto leggendario che lo ricopre e i siparietti a cui l’autrice assiste o di cui è protagonista.

Chi è alla ricerca di spunti per un viaggio reale non resterà deluso e chi, invece, desidera soltanto – almeno per il momento – fare una lettura interessante e appassionante troverà pane per i suoi denti. Perché la vita è in alto.

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