Piogge, uragani e siccità: Daria Addabbo fotografa le Acque d’America
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Piogge, uragani e siccità: Daria Addabbo fotografa le Acque d’America

Un libro fotografico he si avvale della breve ma puntuale prefazione di Fernando Cotugno e dei testi sapienti di Alessandro Portelli, una garanzia quando si parla di Stati Uniti

Acque d'America di Daria Addabbo
Acque d'America di Daria Addabbo
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8 Settembre 2021 - 23.20


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di Rock Reynolds

 

Il cielo piange lacrime torrenziali e la terra si inonda della rabbia dei nembi. L’uragano Ida ha fatto più scempio sulla costa orientale degli Stati Uniti di quanto le autorità avessero previsto o, forse, solo sperato. C’è qualcosa che non va in questo equilibrio globale malato e a pagarne le conseguenze sono spesso le categorie più fragili, quelle che non possono permettersi abitazioni a prova di tempesta tropicale o che non hanno il lusso di migrare altrove in attesa che eventi climatici di tale portata catastrofica si siano placati. Ecco che zone turistiche ambite come le coste della Florida o del North o South Carolina ogni anno subiscono l’urto violento di due, talvolta tre uragani, fenomeni atmosferici che un tempo visitavano tali zone decisamente con minore frequenza. È quasi un paradosso che a subirne i contraccolpi siano pure cittadini americani discretamente abbienti che hanno scelto di passare gli anni della pensione in ambienti più temperati, lontani dai rigori degli inverni imprevedibili di New York e dintorni.

Se Atene piange, Sparta non ride, verrebbe da dire. Tanta, troppa acqua a est. Poca, pochissima, a ovest. E meno male che c’è l’Oceano Pacifico. Ma la California non può abbeverarsene.

Acque d’America (Jaca Book, pagg 202, euro 70,00), il libro fotografico di Daria Addabbo che si avvale della breve ma puntuale prefazione di Fernando Cotugno e dei testi sapienti di Alessandro Portelli, una garanzia quando si parla di Stati Uniti, ce lo ricorda abbondantemente, a partire dalla bella immagine di copertina, una sorta di epigrafe muta del sogno americano o, quanto meno, di una porzione corposa del progetto di felicità che gli USA da sempre vogliono incarnare ed esportare nel resto del mondo. La didascalia, in fondo al libro, ci dice che è quel che resta del Lago Owens, tra Nevada e California, prosciugato interamente a partire dal 1913 per costruire l’acquedotto che porta l’acqua a Los Angeles, la città più assetata del globo. La forza dell’immagine sta nella contrapposizione tra il lago asciutto, sullo sfondo, e una piscina in stato di abbandono, in primo piano, come a rimarcare la sovrapposizione di storie di miserie individuali e drammi collettivi, spazzati sotto il tappetino dell’indifferenza di un capitalismo che non conosce davvero limiti, a quelle latitudini. E se un grande lago è stato prosciugato per placare la sete di una metropoli e delle sue attività economiche, un enorme bacino artificiale è stato creato sul fiume Colorado con la costruzione dell’enorme diga chiamata Hoover Dam dal 1931 al 1936, tra Arizona e Nevada. Un altro, Lake Powell, ancora più grande, è stato creato con la creazione tra il 1956 e il 1966 della Glen Canyon Dam, tra Utah e Arizona. Ma che problema c’è? ci si potrebbe chiedere. In fondo, si tratta di centinaia di chilometri quadrati di deserto, una landa inospitale e a prima vista priva di forme di vita. Peccato che il desertico Sudovest degli Stati Uniti non sia tanto diverso dalle altre lande desolate del pianeta e custodisca, in realtà, un ecosistema variegato e ricchissimo, oltre che paesaggi di straordinaria bellezza e rara suggestione.

Daria Addabbo con Acque d’America non si prefigge certo di creare stimoli per viaggiatori abituati ai fasti di New York e di Los Angeles, alle attrazioni vacanziere di Miami e Las Vegas e neppure agli splendori paesaggistici delle cascate del Niagara o del Grand Canyon, in fondo a due passi – per gli standard americani – dai luoghi che racconta. Le sue foto, semmai, unite alle considerazioni di Alessandro Portelli, spingono a una riflessione sulla caducità e vacuità di un modello, quello statunitense, che verrebbe da dire oggi fa “acqua” da tutte le parti.

È nel New Deal voluto da Roosevelt che l’ossessione del controllo delle acque prende corpo più che mai nell’immaginario a stelle e strisce, soprattutto con la costruzione di una serie di grandi dighe, destinate a sconvolgere l’assetto idrogeologico di una importante fetta del paese e a stravolgerne l’aspetto. Naturalmente, si tratta di opere di ingegneria pensate per dare sviluppo alla nazione e, in molti casi, il loro risultato ha dato ragione a chi le aveva concepite. Ma la convinzione dell’americano medio di avere il sostegno di Dio e, dunque, la ragione assoluta dalla sua parte ha portato gli USA in più di una occasione a non tenere minimamente conto delle esigenze dei paesi limitrofi – segnatamente dei poveri campesinos messicani, un non-problema per la calvinista America – e delle popolazioni native – un’assoluta non-entità – come pure delle torme di diseredati che, più che una risorsa, rappresentano un impiccio.

L’acqua, dunque, come risorsa ancor più importante dell’oro nero. È un topos dell’epopea americana, in fondo, con i grandi allevatori del West che si conquistavano il potere esercitando un controllo spietato su rigagnoli in grado di dare sostentamento alla “loro” valle. Una titolarità accampata in nome di un Dio sempre più personalizzato. Customizzato, per usare un’espressione più in voga oggi. Un Dio che non avrebbe espresso alcuna lagnanza se un signorotto locale avesse deviato il corso di un torrente o ne avesse imbrigliato le acque con i primi, grezzi sbarramenti. E quel topos si è perpetuato attraverso le parole di grandi cantastorie come Woody Guthrie (“Grand Coolee Dam”) e Bruce Springsteen (“The River”) ma pure di romanzieri di pregio quali Mark Twain (Vita sul Mississippi) e Joe R. Lansdale (con il suo Sabine ne In fondo alla palude). Il controllo delle acque è una delle facce dell’ossessione americana per la dominanza sulla natura. Come scrive Portelli, “L’acqua bene naturale scorre effortlessly e non conosce confini”, mentre piantare paletti e piazzare steccati è nel DNA del WASP, il White AngloSaxon Protestant, quello che si considera unico depositario dell’autentico, divino verbo americano: il bianco protestante anglosassone. Portelli ricorda pure le parole di uno dei brani di Bob Dylan che più di ogni altro hanno segnato l’incedere del tempo, “The times they are a-changin’”: “le acque attorno sono salite e se non imparate a nuotare affonderete come un sasso”. Insomma, quasi una metafora del riscaldamento globale e dell’innalzamento dei mari, con sempre più acqua dove non serve e sempre meno dove ce ne vorrebbe molta di più.

Le immagini di Daria Addabbo catturano spaccati di vita quotidiana, in larga parte negli ambienti desertici di Nevada, Arizona e California, dove peraltro si può passare da una landa desolata a un ambiente quasi alpino nel giro di poche miglia. Dalla foto iconica di un tizio che si staglia sulla porta di una casa, davanti al deserto – un tributo voluto all’immagine finale del film Sentieri Selvaggi di John Ford, attraverso cui il grande regista ricorda, in modo inquietante, al mondo che America significa non fermarsi di fronte a nulla – a quella di una partita di golf su un green lussureggiante in pieno deserto, a Palm Springs, California, un privilegio che probabilmente costa tanta sete a qualcuno. Ci sono i casinò nelle meste riserve indiane – paradisi effimeri del gioco d’azzardo – le case dei riccastri hollywoodiani, gli immancabili cimiteri militari – in cui un ordine posticcio costruisce serenità intorno al dolore dell’assenza – la gente comune spesso colta in banali attività quotidiane. Perché l’acqua sotto il sole brilla, ma, sul lato statunitense del confine, non è necessariamente più scintillante e meno torbida di quella sul lato opposto.

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