Così Bellucci racconta le frontiere dell'industria 4.0

Nel volume "Ai-work. La digitalizzazione del lavoro" si spiega la profonda trasformazione tecnologica che sta investendo in particolar modo tutti i domini dell’economia

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19 Giugno 2021 - 16.09


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di Antonio Salvati

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Frequentemente sentiamo spesso parlare di digitalizzazione del lavoro. Per digitalizzazione del lavoro o della cosiddetta industria 4.0 intendiamo la profonda trasformazione tecnologica che sta investendo in particolar modo tutti i domini dell’economia: la produzione, il consumo, i trasporti e le comunicazioni. Consiste nell’introduzione di dispositivi e processi capaci di trasmettere ed elaborare enormi masse di dati con una velocità fino ad ora impensabile, grazie alla disponibilità di macchine capaci di svolgere mansioni, a medio-alta complessità, sin qui appannaggio dei soli esseri umani.
Ne parla diffusamente il volume curato da Sergio Bellucci. Ai-work. La digitalizzazione del lavoro, (Jaca Book 2021 pp. 312, € 25) che attraverso diversi contributi spiega l’«estensione delle capacità d’intervento del fare umano: tutto sembra dilatarsi e accelerare, andando a costituire un confine d’intervento che è, al contempo, sia enormemente esteso sia assolutamente invalicabile. Una nuova sfera “info-cognitiva”, una nuova cornice di “senso dell’essere”, in grado di travolgere forme sociali e produttive, istituzioni politiche e religiose, forme di rappresentanza sociale, di relazione e d’interpretazione del sé e del mondo».

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Per Bellucci siamo in presenza di vera e propria ubiquità del digitale non da molti pienamente compresa. Non siamo solo in presenza del susseguirsi di una “normale” fase di avvento di nuova tecnologia, come altre nel nostro passato. Ancora oggi pochi comprendono «la differenza tra le tecnologie del passato, in grado di moltiplicare il fare delle mani, e le tecnologie sviluppabili con la digitalizzazione, in grado di moltiplicare anche il fare del nostro cervello. Una ubiquità che si somma a una velocità che è caratterizzata dalla potenza della logica esponenziale». Per il curatore del volume manca una “lettura critica” del fenomeno con l’accettazione del digitale che avviene o per «incomprensione e sottovalutazione della sua portata qualitativamente nuova, o per scambio del suo paradigma, del suo portato “ideologico”, come l’ambiente “naturale” dell’umano». Infatti, quando si pensa o si parla del digitale, molti fanno riferimento a ciò che si può fare con uno smartphone. Pochissimi avvertono il “passaggio di potenza” che ha investito il fare umano quotidiano, abilitato, in ogni campo, dalle strumentazioni digitali.

L’avvento delle tecnologie digitali ha investito il mondo del lavoro da alcuni decenni. Le conseguenze non sono state univoche, né hanno avuto una sola forma e un solo impatto. Si individuano almeno due fasi delle trasformazioni del lavoro sotto la pressione della qualità del digitale. La prima trasformazione – realizzatasi negli anni ’90 del secolo scorso – è caratterizzata dal passaggio dal taylorismo meccanico al taylorismo digitale, ossia una “nuova organizzazione scientifica del lavoro” caratterizzata da un impiego distorto della rete. L’utilizzo delle tecnologie digitali – ricorda Bellucci – ha aumentato progressivamente la quantità e la qualità dell’informazione presente nel ciclo produttivo e nelle merci annunciando l’avvento della nuova era produttiva, quella contraddistinta dalle nuove forme di estrazione del valore. La fabbrica flessibile, quella decentralizzata, le esternalizzazioni e le de-localizzazioni, si sono sviluppate proprio in virtù della qualità del taylorismo digitale «che rendeva possibile una scomposizione e ricomposizione del ciclo produttivo prima di allora non concepibili». La stessa idea e forma della globalizzazione, che abbiamo conosciuto in questi anni, sarebbero state irrealizzabili. In pochi anni si sono trasformati i meccanismi di gestione e controllo delle mansioni e del ciclo del lavoro, «rendendoli sempre meno “umani” e sempre più affidati ai processi di ingegnerizzazione inglobati nel software, che diveniva, al tempo stesso, macchina produttiva e controllore della mansione e dei tempi, un controllore “oggettivo” e “spersonalizzato”». Bellucci ci spiega le diverse fasi che hanno favorito l’avvento del del “lavoro implicito”, il lavoro effettuato obbligatoriamente, senza nessuna retribuzione e attraverso strumentazione a carico del lavoratore, che le piattaforme digitali stanno espandendo nel loro ciclo produttivo. L’avvento del digitale, infatti, non ha solo trasformato la forma dell’organizzazione del lavoro salariato, ma ha dato vita, «con una progressione impressionante, la possibilità di estrarre valore da sconosciuti processi sociali abilitati dalla potenza di calcolo dei device mobili come lo smartphone». Occorre considerare che nella storia umana, però, l’avvento di una nuova fase non sostituisce né istantaneamente né integralmente la vecchia forma, ma ne affianca il perdurare della sua esistenza innervando la propria capacità egemonica al proprio interno, trasformando il mondo intorno a sé in maniera progressiva, ma determinante. Emblematico quanto accaduto durante i mesi della pandemia: il lavoro ha assunto improvvisamente forme, relazioni completamente nuove e sarà interessante vedere come aziende, tutte le forme organizzate, cambieranno le loro prassi dopo l’esperienza delle videoconferenze, delle riunioni su piattaforma, delle decisioni assunte con software decisionali. E come cambierà il lavoro dopo la fase della sua remotizzazione casalinga e dell’incessante flusso di informazioni sulle chat in cui messaggi personali, sociali e di lavoro. 

Ormai ogni nostro atto della nostra vita quotidiana, produce dei dati che vengono memorizzati costantemente e che vanno a determinare un flusso immenso di informazioni dalle quali è possibile ricavare informazioni, personali e generali, come mai in precedenza. Sono i cosiddetti Big Data relativi alla sorveglianza delle e nelle città, negli accessi autostradali, nelle strutture chiuse, centri commerciali, supermercati, stazioni, aeroporti e così via. Sorveglianza che si estende a livello “qualitativo” se sommata al comportamento di consumo che svolgiamo in quegli ambiti. Vengono alla mente gli attuali scenari cinesi dove gli strumenti tecnologici non solo hanno cambiato consuetudini personali, sociali, lavorative e nel caso del cellulare persino la nostra postura fisica (spalle leggermente curve, sguardo verso il basso). Con l’avvento della nota superapp WeChat sono sparite le mail: Gmail non aveva alcun senso, non serviva a niente, se non a perdere tempo in attesa che le pagine si caricassero così lentamente da portare all’esasperazione. Tutto ora passa su WeChat, che dimostra di essere veloce, immediata, una scheggia. Finisce un mondo: anche le business card spariscono: è divenuta consuetudine, in sostituzione alle business card, scannerizzare Qrcode. Tutto ciò può apparire alla nostra sensibilità inquietante. Tutti temi grandi ed importanti da tenere d’occhio. Ci riguarderanno. Anzi, già ci riguardano. Ricordando le parole significative di Albert Einstein: «Un giorno le macchine riusciranno a risolvere tutti i problemi, ma mai nessuna di esse potrà porne uno».

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