Non solo il Covid, anche l'Aids ha insegnato che nessuno si salva da solo
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Non solo il Covid, anche l'Aids ha insegnato che nessuno si salva da solo

Il lavoro di Roberto Morozzo della Rocca, La strage silenziosa. Come l’Africa ha rischiato di morire di Aids e come si è invertita la rotta, ha spiegato come si è invertita la rotta con una strategia globale.

Aids in Africa
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18 Marzo 2021 - 21.29


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di Antonio Salvati

 

Per chi si occupa di AIDS il libro di Roberto Morozzo della Rocca, La strage silenziosa. Come l’Africa ha rischiato di morire di Aids e come si è invertita la rotta (Laterza 2021, pagine 264, euro 22,00), è una tappa obbligata. Un volume decisamente avvincente che ricostruisce in maniera documentata gli anni perduti per fermare l’epidemia in Africa, prima dell’adozione di una strategia globale di contenimento dei virus, fino all’implementazione del progetto Dream promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. Con una lezione: «Nessuno si salva da solo», come ha ribadito più volte Papa Francesco, indicando alle nazioni una via condivisa per uscire dall’emergenza Covid a partire dall’accesso universale al vaccino. L’errore da non ripetere è quello di non estendere ai paesi poveri i trattamenti sanitari come è avvenuto per lunghi anni con la pandemia di Ebola e di Hiv. 

Com’è noto dal 1981, per quindici anni, l’HIV/AIDS ha caratterizzato la scena medica in occidente. I numeri non erano enormi all’inizio. Nel 1984 si valutava esservi 4000 persone affette da AIDS in tutto il mondo, di cui 600 nella sola San Francisco. Tra nuovi contagi e decessi, Nord America ed Europa occidentale passeranno dalle prime migliaia di sieropositivi accertati a un tetto massimo non superiore, negli anni Novanta, al milione e mezzo di unità. Tuttavia, l’impossibilità di curare la malattia suscita terrore.

Lottare per vivere esige speranza, sostiene Morozzo della Rocca: «non sono tanto le forme clinicamente devastanti e fisicamente dolorose dell’AIDS conclamato a spaventare quanto l’inesorabilità dell’esito finale, in certo senso anticipato dallo stigma e dalla solitudine che avvolgono il malato. Non è la “solitudine del morente” nella civiltà moderna resa celebre da Norbert Elias. È piuttosto una censura morale e sociale che rende molto difficile sperimentare ciò che, nel linguaggio antico, era definito come ars moriendi. Tra 1981 e 1996 l’AIDS è considerato la peste dei tempi moderni». Molti ricordano l’immenso contrasto dispiegato dai sistemi sanitari occidentali: educazione sanitaria sulla malattia e sulle forme di trasmissione; screening delle categorie a rischio; pratiche di prevenzione centrate su profilattici; distribuzioni gratuite di siringhe; controlli sulle trasfusioni di sangue. Molto finanziata sarà la sperimentazione scientifica. Pur non individuando mai un vaccino, le ricerche dedicate all’AIDS giungeranno a produrre dei farmaci, detti antiretrovirali, «che dal 1996 consentiranno sopravvivenza e buona qualità di vita ai sieropositivi pur senza guarirli». Il nome di antiretrovirali è dovuto al fatto che il virus conosciuto come HIV appartiene al gruppo dei cosiddetti retrovirus. Gli antiretrovirali – com’è noto – contrastano la replicazione dell’HIV nelle cellule umane, ovvero in quei linfociti essenziali per il sistema immunitario di cui altrimenti l’HIV s’impadronisce. Sono validi solo in combinazione multipla, se assunti singolarmente hanno un’efficacia di brevissima durata, dal momento che il virus, dotato di estrema capacità di mutazione, non tarda a produrre varianti resistenti.

Dopo il 1996 il grande allarme delle sanità pubbliche occidentali rientra, seppure l’AIDS rimane una preoccupazione prioritaria. Da malattia acuta mortale si trasforma in malattia cronica compatibile con una vita normale, ferma restando una scrupolosa aderenza al regime terapeutico prescritto. Lo scenario era completamente diverso nel continente africano dove l’AIDS era ed è un flagello che miete un enorme numero di vittime ogni anno. La lesson learned dei malati di AIDS curati in Occidente è che il trattamento era esso stesso prevenzione, grazie all’abbattimento della carica virale.

Come ha raccontato Jeffrey D. Sachs, docente della Columbia University e direttore del Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite, autore della prefazione al volume di Roberto Morozzo della Rocca, «milioni di poveri morivano a causa di malattie epidemiche che i loro governi non potevano combattere perché troppo poveri. I costi necessari a contenere queste epidemie, e quindi a salvare milioni di vite, non erano che un’inezia per i paesi ricchi. Sicuramente non sarebbe stato troppo chiedere che i ricchi agissero in solidarietà con i poveri, soprattutto perché i costi erano così piccoli e la posta in gioco così alta». Per certi versi un problema etico semplice, non difficile da risolvere, «con un disagio minimo per i paesi ricchi (qualche dollaro in più di spesa pubblica all’anno) si potrebbero salvare ogni anno milioni di persone. E in più si otterrebbero benefici ulteriori. La fine delle epidemie permetterebbe crescita economica e sviluppo. I paesi che oggi necessitano di aiuti in futuro avrebbero dei bilanci autosufficienti. E società in salute litigherebbero meno, combatterebbero meno, recluterebbero meno bambini-soldato e i loro cittadini non sarebbero costretti a emigrare o fuggire diventando rifugiati. Nel freddo linguaggio economico angloamericano: i benefici del controllo delle malattie superano di gran lunga i costi».  Gli ospedali saranno meno affollati di malati di AIDS con le loro malattie opportunistiche, si risparmieranno risorse e le sanità pubbliche ne saranno sollevate. Eppure occorreranno molti anni per il mondo ricco per “risolvere” questo problema. Molti sostenevano che i paesi africani erano troppo poveri per restare in vita. In altri termini, le persone di quei paesi erano condannate naturalmente a morire. Con le argomentazioni che gli aiuti non avrebbero funzionato, sarebbero stati rubati. Le ricorda Sachs: «gli africani non avrebbero ascoltato i consigli dei medici. Gli africani non avrebbero saputo regolarsi sugli orari per aderire correttamente alle loro terapie. Gli africani si sarebbero rivolti ai guaritori tradizionali piuttosto che ai dispensatori di medicinali salvavita. Le zanzariere da letto antimalariche sarebbero state rubate, smarrite nei magazzini, usate come veli da sposa, o come reti da pesca».

Roberto Morozzo della Rocca conosce bene questa storia e ce la racconta sapientemente, spiegandoci anche la “conversione” di tante agenzie internazionali, leaders politici che dopo innumerevoli dinieghi, rifiuti, menzogne, confusioni, e giustificazioni per non far nulla – «stavano là ad ostacolare una politica semplice a farsi, che raccogliesse una modesta quantità di fondi dai ricchi per salvare un gran numero di poveri» – si convinsero che si poteva andare oltre le pratiche della prevenzione, realizzando la cura:  con l’assunzione di farmaci antiretrovirali si riduce rapidamente la carica virale nei liquidi corporei sicché scompare quasi del tutto la contagiosità. E la cura rappresenta anche un’efficace prevenzione dell’espandersi dell’epidemia: questa tende a contrarsi nella misura in cui aumenta l’accesso terapeutico. 

Il libro di Morozzo ricostruisce queste dinamiche e soprattutto la storia dell’impegno della Comunità di Sant’Egidio, che conosceva bene le grandi questioni etiche in gioco e le ha affrontate con decisione, risolvendo tutti i problemi pratici per portare la terapia salvavita alle più povere comunità dell’Africa. Il suo programma di punta, Dream (Disease relief through excellent and advanced means), è stato un modello per risultati, professionalità, creatività e decoro nella lotta contro l’aids. Lasciamo al lettore la lettura dei tanti prodigi del programma Dream che ha ispirato molti altri a perseguire questo straordinario mix di integrità morale ed eccellenza sanitaria.

La storia dell’AIDS raccontata da Morozzo è una storia di vite perse, battaglie vinte e sfide in sospeso davanti a noi. L’epidemia di AIDS – sostiene Morozzo – può finire, garantendo che un numero sufficiente di persone contagiate oggisiano sottoposte a una terapia efficace, il cosiddetto programma 90-90-90 (identificare il 90 per cento delle persone infettate, curarne il 90 per cento e ridurre fino a farla diventare impercettibile la carica virale del 90 per cento dei pazienti curati). Questo obiettivo è realizzabile, anzi è facilmente perseguibile sia dal punto di vista operativo che finanziario. Anche se il mondo ricco resta distratto e avviluppato nella “la globalizzazione dell’indifferenza”, come dice Papa Francesco, incapace persino a salvare sé stesso. La sfida da affrontare – ci ricorda Sachs – è soprattutto quella di un rinnovamento morale, perché è su quel sentiero etico che troveremo il coraggio e le energie per vincere anche le sfide di carattere tecnico. 

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