Ibrahim Gokcek e gli altri, il concerto per la libertà continua

La musica, la cultura, hanno sempre infastidito i regimi, tutti i regimi, d'ogni colore.

Ibrahim Gokcek
Ibrahim Gokcek
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Onofrio Dispenza Modifica articolo

7 Maggio 2020 - 19.33


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Il freddo tardo pomeriggio del 16 gennaio del 1969 ero poco più di un ragazzo. Rimasi sconvolto dal gesto di un altro ragazzo, poco più grande di me, che in una città lontana si era cosparso di liquido infiammabile e si era dato fuoco. La città era Praga, e Jan Palach, studente di filosofia, avvolto dalle fiamme, diveniva simbolo della resistenza ai sovietici. La libertà sarebbe arrivata tanti anni dopo, ma Jan sapeva che sarebbe arrivata e che quel suo gesto bruciava il tempo.     
 Mi colpì l’idea che per chiedere un futuro diverso e libero, un giovane si negasse il futuro. Più forte dell’amore per se stesso per i cari che lasciava nel dolore e con il lutto nel cuore; più forte era l’amore per la democrazia e la richiesta di libertà. Morire diveniva poca cosa se le ceneri rendevano più agevole il cammino. Un gesto che mi segnò profondamente, cambiò i codici per leggere il senso della scelta, le cose del contemporaneo che attraversi. 
  Dopo più di mezzo secolo il gesto estremo – non disperato, estremo – ecco che ritorna. Anzi, ritornano. Una dietro l’altra, vite preziose, perché giovani, che si lasciano spegnere dopo un Sos lunghissimo mandato al mondo. Un messaggio lungo giorni, settimane, mesi di sciopero della fame, fino ad un silenzio chiassoso come un concerto, che disturba e rende forse più debole la certezza di un regime apparentemente granitico come quello di Erdogan.

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L’ultimo a spegnersi, dunque, è stato Ibrahim Gokcek, che del Grup Yorum era stato il bassista. Ridotto pelle e ossa, invitato a smetterla, alla fine aveva ceduto all’invito dei compagni forse soltanto perché aveva capito di essere vicino all’appuntamento coi suoi due amici con i quali aveva condiviso passioni, musica, sogni di libertà. Libertà intanto negata, invocata, cantata, in attesa di quella più grande che la musica voleva solo seminare. Lo sciopero della fame di Ibrahim era durato 323 giorni. “Mi aggrapperò alla vita anche in questo cammino verso la morte”, le parole del suo testamento. Uno sguardo alla sua chitarra, un ultimo flebile sospiro, di sollievo, quindi via, all’appuntamento con chi era già partito: Helin, la cantante, morta un mese addietro, e Mustafa, morto in carcere dieci giorni prima di Helin.     
La storia del gruppo e della protesta la sapete già, anche Globalist l’ha raccontata, qui è ricordata ancora una volta. 
  La musica, la cultura, hanno sempre infastidito i regimi, tutti i regimi, d’ogni colore. Seppure apparentemente opposti i regimi sono sempre facce della stessa moneta. Ibrahim e gli altri cantavano, raccoglievano anche un milione di persone ai loro concerti, e il regime di Erdogan li zittiva accusandoli di terrorismo. Gioco feroce, antico, ripetitivo quello dei regimi, al quale Ibrahim e i suoi compagni hanno opposto lo scandalo di corpi pelle e ossa, tutt’occhi, e che poco più di 200 giorni prima erano giovani e belli, simbolo di vita e futuro. Poi la decisione “rivoluzionaria” di darsi la morte, lenta perché “il concerto” durasse il più a lungo possibile. Per svegliare chi dorme, incoraggiare chi canta sottovoce, chi ha paura di sognare. Non gesti disperati, ma di speranza. 

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