Piero De Bernardi, dieci anni fa l’addio ad una leggenda del cinema

Dieci anni fa ci lasciava uno dei più prolifici sceneggiatori della storia del cinema italiano, autore di capolavori come 'L'Armata Brancaleone'

Piero De Bernardi
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8 Gennaio 2020 - 17.48


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di Stefano Pignataro
“Io e tutti quelli con cui ho lavorato non abbiamo fatto altro che rubare, (..), rubare dai grandi, rubare citazioni, scene, situazioni, ma per rubare bene bisogna conoscere”. Una decina d’anni fa, Il Magazine del Corriere della Sera affidava a Vittorio Zincone (se non vado errato), l’intervista a Piero De Bernardi che sarebbe stata destinata come consultazione obbligata in una bibliografia a chiunque volesse riscoprire, analizzare o ricercare le origini di sceneggiature che sarebbero state prese ad esempio per i cineasti di un futuro prossimo. Il più illustre regista della commedia di costume, ad una precisa e legittima domanda su come era possibile arricchire un solo film di tutte quelle citazioni o ogni scene di trovate geniali, rispondeva con un disarmante quanto inaspettato riscontro, quasi un’irriverente risposta: rubando. Ma ai grandi. Ma non a grandi qualsiasi; a grandi come Cechov, Lussu, Chaplin, De Maupassant, quelli a cui prima di “appropriarsi” di una propria frase o di una loro scena letteraria, devi macchiarti della terribile azione di leggerli approfonditamente, magari appassionatamente.
Credo che, nei nostri tempi contemporanei di furti quotidiani di qualsiasi cosa non appartenga alla nostra sfera privata, un furto letterario ci gioverebbe molto. Per rubare bene, precisava il regista de “L’Armata Brancaleone”, bisogna conoscere e bene; egli additava i giovani registi che non sembra leggessero molto a differenza dei suoi storici collaboratori e colleghi. Suso Cecchi D’Amico era una che “aveva letto tutto il leggibile”. Piero De Bernardi anche. E se il decennale della scomparsa della sceneggiatrice toscana, co-sceneggiatrice, tra gli altri, de “Il Gattopardo” di Luchino Visconti, ricorrerà il prossimo luglio, proprio oggi, otto gennaio, ricorre quello di De Bernardi, scomparso a Milano nel 2010. Sembra una coincidenza (o sarà tale) che il primo decennio del secondo millennio si sia portato via tre dei più insigni sceneggiatori del nostro cinema; in soli sei mesi De Bernardi, Scarpelli e D’Amico; forse sarà anche per questo che a fine anno fu proprio il regista viareggino (anzi, romano…Stefano Della Casa ha finalmente messo un punto su questa questione cinquantennale e più), a porre fine violentemente ai suoi giorni, per raggiungere i suoi compagni di gioco e di avventure. De Bernardi era uno di questi. Pratese, classe ’26, padre di Isabella, attrice, ha al suo attivo, nonostante il nome non dica molto al grande pubblico e forse persino ai cultori o agli addetti ai lavori, oltre cento sceneggiature, tutti film capisaldi del nostro cinema. Fraterno amico di Leo Benvenuti, con il quale istaurò un lungo sodalizio, devono molto alla sua fantasia registi come Comenicini e Salce, Blasetti e De Sica, Campanile, Steno, Zampa e Leone, sino a giungere alla seconda stagione della commedia all’italiana con autori come Parenti, Vanzina, Verdone e molti altri.
Il talento di De Bernardi, non affinato da alcuno studio universitario ma sviluppato grazie ad un’atavica ed autentica passione per lo scrivere, fu affidato tutto alla corrente del “Neorealismo” ed alle case di produzione. Un po’ di fortuna certo, come del resto oggi, servì a De Bernardi per trovarsi al punto giusto con la persona giusta ma la fortuna non sarebbe di certo bastata se essa non fosse stata accompagnata da un’indiscutibile sagacia, quella sagacia necessaria per farsi notare da Giuseppe Mangione che gli fu prodigo di aiuti e di possibilità. Racconta il futuro sceneggiatore che fu lui a presentarlo a Giorgio Venturini: sette film in un anno, il giovane De Bernardi non deluse le aspettative. E così per oltre sessant’anni. Tra chiacchiere, gite e varie discussioni “tra amici”, nascevano le migliori sceneggiature. I grandi film nascevano tra pranzi e scatole di sigari (come nel caso dei pranzi con Pietro Germi) e l’idea veniva fuori.
‘Amici miei’ nasce immaginando la storia di semplici amici alle prese con la noia esistenziale, mentre Fantozzi nasce dalla necessaria necessità di non provare a modificare un prodotto o un’opera che prima di essere cinematografica è letteraria. Il segreto per reggere e per unire epoche diverse a livello cinematografico e storico è semplice ed allo stesso tempo molto complesso: tentare una fine ma a tratti improbabile sintesi tra commedia e tragedia, tra farsa e melodramma. Ciò è sempre stata la missione di certa filmografia italiana, “argomentoni” (per dirla alla De Bernardi) che facevano ridere. Lo sceneggiatore prende l’esempio de “Per grazia ricevuta” di e con Nino Manfredi. Nato come film drammatico, si rese necessaria l’esigenza di renderlo quantomeno anche comico. Scavando nella critica teatrale, ci si renderà conto che il segreto altro non è che l’antica lezione che ci consegnò nel 1908 nel saggio sull’Umorismo: ciò è il sentimento del contrario in cui si esagera o si estremizza il tutto a tratti non paradossale, bensì esageratamente prevedibile.

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Tutti i registi del cinema italiano hanno avuto l’onore di lavorare con Piero De Bernardi e su tutti lo sceneggiatore toscano aveva una parola ed un ritratto. “De Sica è stato il regista con cui era un piacere lavorare. Era troppo bravo. Anzi, a volte avrebbe anelato che lo si avesse lasciato fare in tutto per tutto”, ricorda in un’intervista video che è possibile facilmente reperire (forse l’unica, concessa a Giovanni Bogani dal titolo “Ciak si scrive”) – Con Antonioni, al contrario, anche se una persona amabile ed un amico, non scattò mai l’intesa, forse perché non aveva bisogno di costruttori, bensì di poeti. Si pensi al suo lungo sodalizio artistico con Tonino Guerra.

L’architettura di un racconto o di una sceneggiatura, Piero De Berardi non la sapeva spiegare. Come tutti i maestri non si è mai messo in cattedra, anche se lui, insieme agli altri, equivale ad un “apeiron” del nostro cinema avendo scritto quasi tutto lui. “È un mestiere che si impara”, asseriva, come direbbe un artigiano al suo apprendista. Del resto, lui era un artigiano, di parole, di sensazioni, di racconti. Partecipare al racconto facendolo proprio. Unire la tradizione all’innovazione negli anni e nei decenni attraverso i plurimi cambi antropologici di diverse epoche storiche che hanno accompagnato il Belpaese in cui morale borghese, liberalizzazione dei costumi, crisi politiche e sociali si raccontano unitamente in opere che, anche se una parte della critica fermano agli anni ottanta, raccontano e continuano a raccontare una stagione in perenne movimento ed in ininterrotto, incessante mutamento ma con qualità e caratteristiche incomparabili.

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