Addio all'antropologo Giulio Angioni: il ricordo dei suoi allievi

Ci ha lasciato questa mattina, a causa di una malattia che lo ha presto portato via, pubblicando la sera prima, sul moderno social network fb, la sua ultima poesia.

Giulio Angioni
Giulio Angioni
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Veronica Matta Modifica articolo

12 Gennaio 2017 - 21.53


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Docente di Antropologia culturale all’Università degli Studi di Cagliari, allievo e collaboratore di Ernesto de Martino e di Alberto Mario Cirese, era un esponente della Scuola antropologica di Cagliari. Saggista e scrittore, fondò e diresse la rivista antropologica internazionale Europaea. Journal of the Europeanists-Journal des Européanistes. Ci ha lasciato questa mattina, a causa di una malattia che lo ha presto portato via, pubblicando la sera prima, sul moderno social network fb, la sua ultima poesia. Doveroso un commiato sentito, per la scomparsa dell’antropologo sardo Giulio Angioni. Ognuno con le sue fragilità, ogni vita ha un senso anche quando non lo si vede ed ogni incontro ci aiuta e ci fa da specchio per chi ha occhi che vogliono “vedere”. A seguire i racconti legati alla memoria di Veronica e Daniele due ex studenti di filosofia e dell’allieva Alessandra Guigoni nella convinzione che ogni buon pensiero è intercettato da forze misteriose e incanalato in forma mirabile a vantaggio nostro e loro, perché “il sentire” non ha barriere né di spazio né di tempo.

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Avevo 23 anni – dichiara Veronica Matta – ero una studentessa di filosofia a Cagliari. 3 esami dalla tesi di laurea, decisa sullo spirito oggettivo di Hegel in filosofia teoretica. L’Erasmus a Madrid. Un errore della facoltà di Cagliari mi spedisce alla facoltà Complutense de la Capital, non in filosofia ma in scienze sociali. Antropologia e tecniche investigative, sociologia mi fanno cambiare direzione e al mio rientro saluto Hegel ed il Prof. Lecis per bussare alla porta di Giulio Angioni e dell’antropologia culturale.

Figlia di ristoratore e di un’impiegata dell’agenzia delle entrate con una grande passione per le scienze occulte, mi guardo in faccia e dico: “sono la figlia sandwich, quella del mezzo, sono cresciuta con e nel top dell’alimentazione tradizionale sarda, scorrazzando tra i profumi, il calore dei tavoli, le tensioni della cucina nel ristorante di famiglia. Il mio palato e la mia mente insieme ai ricordi sono stati fortemente educati al cibo sano e buono. Il futuro è quello, Prof. Angioni, voglio fare una tesi sull’alimentazione popolare in Sardegna.” Abbandono il corpo docente della mia facoltà e mi butto tra le “braccia” dell’antropologia e di un’estesa bibliografia. La mia fretta nel terminare, dettata dalla giovane età e dalla forza di una media alta degli esami sostenuti, mal si sposa con l’approccio lento e riflessivo del professore che con sguardo critico mi invita a “poni su cu in sa carira” e ad iniziare a lavorare con la lettura di alcuni mostri sacri dell’antropologia culturale. Un altro mondo. Autori, libri, prospettive. Incomincio con Lui, con i testi che hanno segnato un’epoca negli studi antropologici sulla Sardegna: Sa laurera: il lavoro contadino in Sardegna”, “Il sapere della mano”, “Pane e formaggio”. È solo il primo gradino di una scala a chiocciola: alla svolta mi attendono Bourdieu  con “La distinzione. Critica sociale del gusto” e Braudel con “Civiltà materiale, economia e capitalismo. Le strutture del quotidiano (secoli XV-XVIII)”. E poi alla scoperta di quel che non sapevo e di quel che non sapevo di sapere: il grande dizionario ottocentesco del Casalis, Cirese “Per lo studio dell’arte plastica effimera in Sardegna” fino a Coletti F. con “La mortalità nei primi anni d’età e la vita sociale della Sardegna”, Gabriella Da Re, “I pani e i dolci. Il lavoro, i luoghi, i gesti della panificazione” e le “Tecniche dell’allevamento e della macellazione del maiale domestico in Sardegna”,  “La casa e i campi. Divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale”.

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Tanti maestri, tanti ostacoli, tanti dubbi, tanti temi fra quelle pagine.

Ma non bastava. Ad attendermi c’erano Delitala “Come fare ricerca sul campo: esempi di inchiesta sulla cultura subalterna in Sardegna, il classicissimo De Martino di “Sud e Magia”, Gadamer con “Verità e metodo”, sino al  “Dono e Malocchio” di S.F. Flaccovio e “Lo spirito del dono”. Ero figlia di ristoratore, no? Allora, era fatale che leggessi l’Harris di  “Buono da mangiare, che mi facessi un’idea di  Lévi-Strauss: “Il crudo e il cotto”, “Le origini delle buone maniere a tavola” (senza  trascurare “Le strutture della parentela”. Vi risparmierei Leroi Gourhan “Il gesto e la parola”. Livi Bacci M. con “Popolazione e alimentazione.” A me non fu risparmiato né il Walter Ong di “Oralità e scrittura: le tecnologie della parola”, né “ Stato della documentazione e prospettive di ricerca sul ciclo riproduttivo in Sardegna” , “Immaginario e ciclo riproduttivo in Sardegna. Voglie, mostri, streghe”, “Il parto e la nascita in Sardegna” di Orrù. Per finire – ma non finiva mai – Antonio Pigliaru, un altro classico: “Il banditismo in Sardegna”, con in coda Pilia: “Il culto dell’alimentazione, segno di antica civiltà”, Salaris “Atti della Giunta per l’Inchiesta Agraria e sulle considerazioni della classe agricola”  E la domanda che senz’altro aveva fatto migliaia di volte mio padre, me la ritrovavo a mo’ di titolo su un libro di Caterina Schiavon: “Al sangue o ben cotto.” E ho imparato che esiste “Il colore del cibo” (A. Teti). Dimenticavo: Dolores Turchi “Lo sciamanesimo in Sardegna”. E il Wagner, l’immenso Max Leopold del “Dizionario etimologico sardo”.

Credetemi, non era una bibliografia, era scalare una montagna. Metodo e ricerca, dati e interrogativi.

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Inizia lì, dopo un anno di intensa lettura, la mia prima inchiesta sul campo. con la mia compagna di viaggio Jose Meloni, che con l’antropologa Da Re, avevano già iniziato questo tipo di studi. L’assistente Alessandra Guigoni affibbiatami da Giulio perché non voleva più vedermi se non alla fine del lavoro, mi seguì con enorme pazienza fino alla consegna di oltre 300 pagine di tesi che, dopo qualche anno, divenne un saggio antropologico dal titolo “Il dono del latte”, con cui iniziai a viaggiare come un’antropologa dal Nord al Sud della Sardegna in nome della promozione culturale della pratica dell’allattamento al seno. Solo con il tempo, nella fase da romanziere, il mio rapporto con Giulio migliorò e lo ringrazio per tutto quello che non mi ha dato e che mi ha dato.

“Ho appena 18 anni – racconta Daniele Carbini e ho scelto Urbino, corso di laurea in Filosofia. Corre l’anno 1992. Ho scelto l’Italia, lontano dalla Sardegna,. I motivi sono molteplici, primo fra tutti la Sardegna stessa. Mi sta stretta, nella sua mentalità chiusa, che ritengo ottusa e arretrata, mentre io voglio cavalcare il mondo e conoscerlo. Secondo motivo è il semplice fatto che a Sassari ancora non c’è un corso di laurea in filosofia e a Cagliari ci sono pochi esami. Per me l’Antropologia nemmeno esiste, la frequentano decine di studentesse di Lettere e diversi studenti di Filosofia. Lo considerano un esame “facile”. Io punto ad esami tosti, tanta fatica. E però nel corso di Antropologia ci sta Alessandra dai capelli rossi che lo segue e lei è bella da togliere il fiato e perdo le parole quando mi parla. Quando mi chiede di seguire Antropologia con lei io lo faccio, per lei mica per la materia. Le prime due settimane seguo il corso con leggerezza, è un’ora che passo per alleggerire le mie giornate e per stare con Alessandra. Solo che il docente mi chiede di intervenire e io che mi metto a fare lo splendido mi ritrovo a parlare di Sardegna con supponenza, con superiorità ingiustificata, ma anche difendendola dai pregiudizi e dagli stereotipi. Succede così che De Matteis mi chiede di fare un lavoro diverso dal canonico corso di studi. Mi chiede di scrivere una piccola tesi sul carnevale in Sardegna e sulla famiglia sarda. È lui, in quel di Urbino, a consigliarmi alcuni testi fondamentali, di cui non ho mai sentito parlare prima e che devo usare come base della mia ricerca. I testi sono di Luca Pinna sul “familismo” sardo esclusivo e Clara Gallini sulle tradizioni popolari, in particolare il Carnevale. Nel frattempo seguo il corso di Antropologia e vengo così introdotto ai giganti della materia, da Levi-Strauss ad Ernesto De Martino, autore chiave di tutto il corso, con “La terra e il rimorso” e “Sud e Magia”. Mi si apre un mondo, l’Antropologia Culturale diventa materia serissima, anche se Alessandra è sparita e poco me ne importa. Rientro in Sardegna e a fare incetta di libri, sui carnevali e sulle tradizioni sarde, su riti religiosi e sulla cultura popolare. Compro di tutto, dalla “Rivolta dell’oggetto” di Michelangelo Pira alle “Antiche leggende sarde” di Grazia Deledda. Alla fine della fiera saranno una quarantina di libri. La mia base di lavoro appassionante, che mi metterà profondamente in discussione e che mi aprirà il mondo sulla sfera sarda da cui sono scappato, perché la sento stretta come una morsa sul collo, che mi soffoca, che sento come un masso sulla schiena. Una Sardegna di cui sento il giudizio collettivo su ogni azione, su ogni parola, di cui non sopporto il pettegolezzo, le regole di omertà lecita e mai ammessa, di cui non digerisco la visione su di me dell’«altro», il «non sardo», il «continentale», che ci vede come un blocco unico ed indistinto, un pastore, un rozzo, un incolto, che non sa distinguere dal «gallurese», quale io sono, dal «barbaricino» o dal «campidanese». Non siamo tutti uguali in Sardegna! “Io non sono come loro!”. Lì sono arretrati, ma in Gallura no, siamo al passo con il resto dell’Italia, siamo italiani, quindi per favore non confondetemi con quella realtà che non si vuole ammodernare, che non ne vuole sapere di vivere nel mondo e che rimane avvinghiata a modi antichi e beceri. Questo sono io, appena arrivato ad Urbino e appena iniziata la mia avventura filosofica «ufficiale». E lo studio interno della Sardegna mi interroga sulla mia identità e richiama in me un forte orgoglio identitario, di appartenenza, come mai l’ho sentito e conosciuto in precedenza. E a studiare, a capire nel dettaglio, i caratteri sardi, le logiche antiche che perdurano, la realtà molto diversa da come appare e da come la si vuole raccontare, anche dentro la Sardegna stessa. Mi rendo conto che certo ci sono delle differenze tra galluresi e barbaricini, tra campidanesi e ogliastrini, che ci sono particolarità uniche come i catalani di Alghero o i carlofortini. tutto vero, ma a studiare attentamente i comportamenti, le motivazioni, i codici non scritti che dettano le regole sociali, estremamente funzionali ed efficaci, mi rendo conto che dopotutto non siamo molto diversi e che molte delle cose dette della realtà di dentro, il cuore barbaricino che a sua volta si rivendica come l’unico autentico sardo, ci sono tante troppe cose in comune con realtà galluresi che si replicano perfettamente, come ad essere un’unica realtà. È qui che conosco ed entro in contatto con le opere di Giulio Angioni, fondamentali ed ineludibili. Destino vuole che io sia figlio di mugnaio, che l’attività di famiglia sia fare la «farina sarda» nel pieno rispetto della tradizione e con l’intento di valorizzare il prodotto da un lato e la terra di Sardegna dall’altro. Attività che con ostinazione macina solo grani duri sardi e che cerca di realizzare una farina di eccellenza, al fine di ottenere pani e dolci tipici di alta qualità. Argomento non da poco, visto che nell’alimentazione sarda si esplica tanta cultura di questo popolo, dall’arte all’etica fino al senso stesso della società sarda. E destino vuole che l’attività non si limiti alla farina, ma anche al mondo agricolo e pastorale. Destino vuole che la mia famiglia sia nata in campagna e di campagna ha vissuto da sempre, anche dopo avere avviato l’attività molitoria. E lo studio di Angioni, delle sue opere, diventa fondamentale, un contributo di valore assoluto, legato indissolubilmente al suo maestro, al suo approccio e alla sua profondità speculativa e alla sua capacità di visione dell’«altro» e del valore assoluto della diversità. Improvvisamente il mondo sardo, con le dovute divergenze e differenze al suo interno, al pari delle sue affinità, diventa un corpus indentitario fondamentale per conoscere me stesso e la mia gente, ma anche e soprattutto per conoscere i mondi «altri», fuori dell’isola. L’Italia non è più Italia, ma un miscela di culture straordinarie di intensa ricchezza, alla stessa stregua di ogni altra popolazione del pianeta. Se non si ha conoscenza e coscienza di sé è altrettanto impossibile conoscere l’altro da sé, né si ha possibilità di comprenderlo, schiacciandolo con veli di ipocrisia e di pregiudizi di massa, che poco servono se non alla mancata comprensione e all’aumentare delle distanze. La formazione antropologica mi ha cambiato profondamente ed è ad oggi condizione necessaria dell’analisi umana delle cose, eticamente, politicamente e speculativamente. Giulio Angioni rimane uno di quegli autori che hanno contribuito in modo decisivo alla mia formazione umana e sociale e gli sono profondamente grato. Il minimo che posso fare è porgergli un sentito ricordo, nel momento stesso in cui la Sardegna lo consegna alla Storia come uno dei suoi figli più illustri.”

 “Giulio Angioni – dichiara Alessandra Guigoni– è’ stato un grande antropologo, era conosciuto e rispettato da tutti i colleghi italiani, e non solo italiani. Abbiamo lavorato insieme per quasi 12 anni, a volte discutevamo, ma era sempre ironico, e temevo i suoi silenzi più che le sue parole. Non mi considerava sua allieva ma io ho imparato tanto in quegli anni all’università con lui, e ne ho fatto tesoro, nel bene e nel male; lo ringrazio ancora una volta, qui e ora”.

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