In Barbagia un etnocidio culturale, anche grazie al falso mito Mesina

Un bel pezzo di analisi su cultura, territorio e identità del cuore della Sardegna. Mesina è un mito urbano, dice il sociologo e scrittore Nicolò Migheli.

In Barbagia un etnocidio culturale, anche grazie al falso mito Mesina
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14 Giugno 2013 - 15.22


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di Nicolò Migheli

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Bisogna aver avuto sedici anni nel 1966 ed aver visto lo sguardo disperato di un tuo amico a cui avevano sequestrato il padre. Averlo visto quel povero corpo in decomposizione, buttato sotto un macchia di rovo e avere memoria del lezzo di cadavere che ti resta nelle narici per settimane. Bisogna essere stati ragazzi in quegli anni tremendi; a mezzo servizio tra scuola ed ovile, tra sogni di riscatto civile e il peso di una delinquenza cinica che uccide ogni aspirazione. Andare in campagna con lo sguardo rivolto da un’altra parte per paura di vedere cose che non dovrebbero essere viste.

Bisogna aver stampato in mente carabinieri e poliziotti che controllavano i bollettini di proprietà, o di custodia, del bestiame, e una decina di tuoi compaesani che in ferri di campagna venivano condotti al confino. Ricordarsi dei manifesti con le taglie affissi nei muri del municipio. Esperienze come queste ti possono dare chiavi interpretative che superano ogni analisi sociologica, anzi costituiscono il filtro che demitizza le letture semplicistiche.

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Il banditismo sardo è stato una delle maggiori leve di distruzione della pastoralità, è stato l’alibi per un etnocidio culturale. Basta rileggersi le conclusioni dell’inchiesta parlamentare del senatore Medici, dove l’unica modernizzazione possibile era lo sradicamento di un modello economico antico in favore di una effimera industrializzazione. Togliere l’acqua ai pesci. Il pastoralismo come arte criminale. Come se il delinquere fosse legato ad una professione e non a comportamenti riproducibili in ogni ambito sociale.

Una operazione così sofisticata aveva però bisogno di un immaginario forte, costruito in una ambigua positività. Il mito di Mesina è stato funzionale a tutto questo. Ha trasformato il banditismo in manifestazione ribellistica di giuste rivendicazioni, facendone di lui un fenomeno mediatico, con interviste nella latitanza, peregrinazioni di editori in cerca di un Che per la Cuba del Mediterraneo. Donne attratte dal fascino ambiguo del latitante con il contorno di agenti dei servizi. Una riproposizione in salsa barbaricina del mito del siciliano Salvatore Giuliano.

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Il bandito mafioso funzionale alla repressione del movimento di occupazione delle terre, all’assassinio di sindacalisti e politici di sinistra. Certa sinistra urbana che in Sardegna in quegli anni, sui fenomeni delinquenziali ebbe un comportamento ambiguo, anche essa soggiogata dal mito del ribelle, senza capire che quel fenomeno era una via facile verso l’arricchimento personale. Il reinvestimento in tanche allora, in narcotraffico oggi. Un mito etero imposto che ha finito per imprigionare Orgosolo. Quel paese è stato abile nel rovesciare lo stigma in opportunità, facendone una delle principali attrattive turistiche. Conosco bene gli orgolesi, per sapere che da tutto ciò vorrebbero liberarsi e le decine di associazioni che combattono per un paese normale, debbono fare i conti con un passato che non passa, con chi li appesantisce di continuo con i suoi comportamenti.

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Eppure il nuovo arresto di Mesina, se le accuse verranno provate in sede di giudizio, può essere il colpo mortale per questa mitopoiesi della vittima delle contraddizioni sociali, di chi non ebbe, secondo quella vulgata, altre possibilità se non la delinquenza, il sequestro di persona, l’omicidio. E’ finito il tempo della facile giustificazione perché quell’uomo ha toccato l’intoccabile. Mentre il sequestro di persona, nonostante il suo abominio, poteva essere visto come una redistribuzione del reddito, del “ricco” che paga ed altri che ne godono, la droga tocca tutti. Distrugge famiglie e patrimoni, nega il futuro a generazioni intere; non conosce differenziazioni di classe e di reddito. Nonostante la Sardegna non sia indenne da questa piaga, non vi è nessuna ambigua giustificazione sociale per chi si arricchisce in questo modo.

Ecco dove Mesina ha sbagliato, se è veramente così. Con le sue frequentazioni carcerarie ha creduto che sistemi di altre realtà fossero riproponibili qui da noi. Non è stato così, ed in questo modo ha ucciso l’immagine di redenzione, non solo sua, che altri gli avevano costruito addosso. Una sconfitta per tutti. Chie naschet corbu no si che mudat in columba. Chi nasce corvo non diventa colomba. Recita così un proverbio pessimista e determinista. Ci sono momenti che non si vorrebbe che quell’adagio avesse ragione. Nonostante tutto, questo è uno di quelli. La speranza che si possa cambiare è l’ultima a morire. Cominciamo però a liberarci dell’immagine eroica e giustificazionista del bandito. Questo tocca a tutti noi. Il resto verrà.

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