Il massacro di My Lai: ieri come oggi l'orrore senza fine della guerra
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Il massacro di My Lai: ieri come oggi l'orrore senza fine della guerra

Le truppe americane uccisero e torturarono 504 poveri abitanti di un villaggio vietnamita. Donne, bambini. Solo crudeltà. Una strage a lungo nascosta

Il massacro di My Lai in Vietnam
Il massacro di My Lai in Vietnam
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

17 Marzo 2018 - 09.50


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Insieme alla strage di via Fani, c’è un altro triste anniversario, per noi italiani meno noto, ma non meno tragico. Stiamo parlando dell’evento passato alla storia come il massacro di My Lai, forse l’episodio più truculento della Guerra del Vietnam, che vide le truppe dell’esercito statunitense sterminare la popolazione inerme d’un intero villaggio (347 persone secondo alcune fonti, 504 per altre), composta da donne, vecchi, bambini, neonati. A raccontare l’eccidio in tutto il suo raccapriccio furono le foto scattate da Ronald Haeberle, un fotografo militare che alle 7.30 della mattina del 16 marzo 1968 atterrò in elicottero insieme ad un centinaio di commilitoni dell’11a Brigata (ribattezzata in seguito “Brigata Macellai”) della Compagnia Charlie nei pressi di un villaggio vietnamita, nella provincia di Quang Ngai, a 840 chilometri a nord di Saigon.
Il massacro ebbe inizio verso le 8. Era giorno di mercato, gli abitanti della zona erano lì riuniti, quando senza avvertimento alcuno i soldati cominciarono a falciarli. Alcuni furono trinciati dalle baionette, altri vennero ammassati nei fossati e fatti saltare in aria con le granate. Non si ebbe pietà nemmeno di un gruppo di donne e bambini inginocchiati a pregare attorno ad un tempio: furono ammazzati con un colpo di fucile alla testa. Nel villaggio, le donne tentavano di coprire con il corpo i propri figli: le une e gli altri vennero sterminati, con metodo. I piccoli che tentavano di fuggire vennero abbattuti. Le capanne furono date alle fiamme, e quando gli abitanti ne uscirono per non rimanere bruciati vivi, finirono falcidiati dalle raffiche di mitra. Donne e bambine vennero stuprate e mutilate, alcuni furono scalpati, ad altri fu strappata la lingua. Il villaggio venne raso al suolo. Neanche il bestiame scampò a un tale macello.
L’entità della carneficina sarebbe potuta essere ancor maggiore se ad un certo punto non fosse giunto un elicottero in ricognizione, il cui equipaggio, minacciando di aprire il fuoco contro i fanti autori delle atrocità, riuscì a bloccarne la ferocia e a far evacuare i pochi sopravvissuti. Per quell’azione, trenta anni dopo, al pilota Hugh Thompson, all’artigliere Lawrence Colburn e al capo dell’equipaggio Glenn Andreotta fu conferita l’onorificenza più alta dell’esercito statunitense per atti d’eroismo che non coinvolgano il nemico, la Soldier’s Medal.
La storia del massacro, della infame coperta di silenzio che i vertici politici e militari tentarono di stendervi sopra affinché rimanesse all’oscuro di un’opinione pubblica all’epoca particolarmente agguerrita, è una delle tante fosche vicende che macchiano il civile, religioso, razionale occidente. Le scioccanti foto di Haeberle che documentavano le atrocità commesse dall’esercito statunitense furono pubblicate soltanto venti mesi dopo l’eccidio: apparvero il 20 novembre del 1969 sulla prima pagina del Plain Dealer di Cleveland. Erano sfuggite alla censura perché Haeberle non le aveva scattate con la Leica d’ordinanza, ma con la sua Nikon.
Nella vicenda compare anche un altro “eroe”, il giornalista indipendente Seymour Hersch, che sull’episodio condusse una serrata indagine raccogliendo le confidenze di alcuni soldati. Dopo essere stata rifiutata da molti giornali, l’indagine venne pubblicata da Associated Press: fu in seguito al clamore che suscitò che il Plain Dealer decise di pubblicare le scioccanti foto scattate da Haeberle. A quel punto, la storia venne ripresa dalle testate più importanti, Time, Life, Newsweek, e l’America si trovò davanti l’orrore perpetrato dai suoi “boys”. Le due commissioni d’inchiesta costituite dall’esercito partorirono un topolino. Vennero accusati 14 militari, tra cui il capitano Ernest Medina ed il tenente William Calley: tutti assolti tranne quest’ultimo, condannato nel 1971 al carcere a vita, per omicidio premeditato e per aver impartito l’ordine di sparare. Il giorno dopo la condanna, il Presidente Richard Nixon emise un atto di indulgenza: Calley fu posto agli arresti domiciliari. Scontò 3 anni e mezzo, poi una sentenza della Corte federale lo dichiarò libero.
Le fotografie di Haeberle sono oggi patrimonio comune. Le distese dei cadaveri dai corpi straziati, le facce piene di terrore e di angoscia di donne vecchi e bambini negli attimi precedenti l’esecuzione, quelle indifferenti dei soldati assassini, rimangono una delle testimonianze più crude della barbarie perpetrata quell’infausto giorno. Dovrebbero costituire anche un poderoso monito affinché tali nefandezze non si ripetano, ma a giudicare dagli orrori che nel silenzio internazionale accadono da anni quotidianamente in Siria e in tante, troppe parti del mondo, così non è.
Oggi Ron Haeberle vive nei dintorni di Cleveland, in una casa appartata alle cui pareti sono appese opere di artisti vietnamiti. Nel 2011 è tornato a My Lai, dove ha incontrato Duc Tran Van, uno dei pochi sopravvissuti al massacro. Nel marzo del 1968 Duc aveva otto anni. Parlando con lui per mezzo di un interprete, con un sussulto Haeberle ha scoperto che il cadavere della donna che 43 anni prima aveva fotografato dietro un masso era la madre di Duc, Nguyen Thi Tau. Duc gli ha raccontato che quel giorno la madre gli aveva urlato di scappare via con la sorellina di venti mesi, di rifugiarsi nella casa della nonna. Quando aveva sentito il frastuono di un elicottero che volteggiava su di loro, Duc si era gettato a terra per proteggere la sorellina ferita. Haeberle aveva immortalato anche quell’attimo.
Duc e Haeberle sono diventati amici. Il veterano dell’esercito statunitense è andato a trovare Duc in Germania, dove adesso vive. Duc a casa conserva un piccolo reliquiario di famiglia. Adesso vi ha aggiunto l’ultima foto di sua madre, e la Nikon che l’aveva scattata: un dono di Haeberle.

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